martedì 15 maggio 2012

L'EUROPA TRA CRISTO ED IL NULLA




Le radici della crisi dell’Unione Europea (1991-2011)

La crisi economica, sociale e politica che l’Unione Europea oggi vive è sotto gli occhi di tutti.  
Prevederla non era difficile. Rileggiamo ad esempio ciò che scriveva Roberto De Mattei non molto tempo fa....
La lettura di questa analisi, che precedette di quasi 10 anni l’entrata in vigore dell’Euro, invita a riflettere sul nostro futuro.
Lettera ai Parlamentari europei del prof. Roberto de Mattei
Roma, 11 maggio 1992
Egregio onorevole,
a nome del Centro Culturale Lepanto, che ho l’onore di presiedere, vorrei sottoporre alla Sua attenzione alcune riflessioni a proposito di un importante dibattito che Ella e i suoi colleghi avete affrontato e dovrete ancora affrontare (l).
Mi riferisco al Trattato di Maastricht, stipulato l’11 dicembre 1991 nella cittadina olandese dai Capi di Stato e di Governo dei dodici Paesi della Comunità europea per avviare la nuova organizzazione internazionale denominata “Unione europea”.
Questo Trattato, che è stato formalmente sottoscritto il 7 febbraio 1992 e che, per entrare in vigore, dovrebbe essere ratificato dai rispettivi Parlamenti nazionali entro il 31 dicembre di quest’anno, sta suscitando un po’ ovunque crescenti dubbi e perplessità: unirà e rafforzerà veramente l’Europa, o la disgregherà, precipitandola nel caos? Lo scopo di questa lettera, è di contribuire ad una discussione su questo punto capitale.
Il sogno nichilista di distruzione dell’Europa
In questo 1992 che segna il 500° anniversario della scoperta e della civilizzazione dell’America da parte degli europei, la Civiltà europea e cristiana è sottoposta a un processo senza precedenti. L’Europa è accusata di aver imposto al mondo il suo modello di civiltà, in luogo di “aprirsi all’Altro”, “a ciò che non è, non è mai stato e non sarà mai l’Europa”(2); essa dovrebbe dunque rinnegare sé stessa per recuperare la “Alterità” che ha negato: i barbari, gli indios, i musulmani, sarebbero portatori di un “messaggio culturale” incompreso. L’Europa dovrebbe perciò rinunciare alla “ambizione secolare di centralità storica di cui Colombo è il simbolo”(3) per “decivilizzarsi” e sprofondare nel tribalismo.
Nella visione della storia, elaborata da questi “teorici del caos”, il fondamento dell’Europa sarebbe “la perdita dei fondamenti” (4), la sua caratteristica quella “di non essere identica a sé stessa” (5). Nessuna identità storica e culturale meriterebbe di sopravvivere perché nel mondo nulla esiste di stabile e di permanente e tutto è privo di ordine e di significato: il Nulla è l’unica realtà che si deve affermare nella storia e nella società: “Dobbiamo riconoscere il ruolo storicamente positivo del Nulla /…/ Siamo incitati a fondare la nostra cittadinanza europea in rapporto al nulla” (6).
La vera natura del Trattato di Maastricht
Queste tesi nichilistiche sull’Europa, esposte in riviste, libri e convegni, amplificate dai mass media e abbondantemente riecheggiate dagli uomini politici, non vanno ignorate né dimenticate nell’affrontare la discussione su un accordo politico così ambizioso come il Trattato di Maastricht.
Non si tratta di schierarsi genericamente pro o contro l’Europa, ma di affrontare il vero problema di fondo: a quale Europa ci richiamiamo? Qual è l’Europa prevista dal Trattato di Maastricht? I trattati politici e diplomatici non si riducono infatti a formule tecniche ma riflettono modelli politici, visioni del mondo e aspirazioni ideali.
Quali, in questo caso?
Non è solo un mercato unico…
Per l’uomo della strada, l’Unione europea si riduce al grande mercato senza frontiere, ossia all’unico “mercato interno” europeo realizzato attraverso la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali.
Quest’uomo comune europeo, che rifugge da discussioni e impegni profondi per vivere immerso nei problemi di ogni giorno, diffida dei politici, ma nutre ancora una certa fiducia verso il pragmatismo degli economisti; il fatto che l’Europa unita sia oggi patrocinata dai “tecnici” dell’economia, lo tranquillizza ed egli è tentato a vedere in essa la possibile soluzione dei gravi mali economici e sociali che affliggono ormai cronicamente tutte le nazioni occidentali.
In realtà, il primo equivoco di fondo da dissipare, è proprio quello di ritenere che la organizzazione internazionale prevista a Maastricht si limiti ad una unione economica, destinata ad assicurare maggiori vantaggi e benefici ai suoi membri.
Ciò è evidente fin nelle prime pagine del Trattato, dove, a sottolineare la novità, al tit. II, art. G A I si precisa che “l’espressione ‘Comunità economica europea’ è sostituita dall’espressione ‘Comunità europea’”.
Qual è il senso di questa precisazione? Quello di sottolineare il progressivo passaggio da un’unione meramente economica ad un’unione innanzitutto politica; l’unificazione economica è un mezzo, quella politica il fine.
… ma è un processo politico e culturale
La prima caratteristica del Trattato di Maastricht che balza agli occhi è la sua processualità. L’accordo prevede infatti, a partire dallo gennaio 1993, una serie di tappe diverse, rigorosamente concatenate e stabilisce il “carattere irreversibile” (7) della transizione all’ultima fase, entro il l° gennaio 1999.
Occorre spingere lo sguardo verso la mèta finale, perché è da essa che traggono significato le fasi precedenti. E se la fase iniziale è economica, l’ultima conclude un processo di profonda trasformazione politica dell’Europa. Qual è la natura di questa trasformazione? Ebbene, affermiamo senza timore di essere smentiti, pronti ad un aperto dibattito intellettuale su questo punto: il progetto di Maastricht non innesca un processo di unificazione europea, ma un processo di disgregazione degli Stati nazionali: e poiché l’Europa non può prescindere dagli Stati nazionali, che ne costituiscono l’ossatura, la liquidazione di questi Stati equivale alla distruzione dell’Europa condotta in nome dell’Europa stessa!
Verso il caos economico?
La prima fase del processo di unificazione di Maastricht prevede, a partire dallo gennaio 1993, la caduta delle frontiere politiche ed economiche all’interno della Comunità e la creazione di un grande mercato unico europeo. Ma quali saranno le conseguenze di questa vera e propria svolta economica del nostro continente?
Quasi tutte le nazioni europee producono merci di eccellente qualità, dai vini ai tessuti. Generalmente ogni nazione è la principale consumatrice dei propri prodotti; per evidenti ragioni economiche, ciò è favorito dalle misure di protezione doganale prese dai rispettivi governi. Se tali misure vengono soppresse, è inevitabile che la curiosità propria dell’uomo spinga i consumatori nazionali a sperimentare i prodotti provenienti da altre nazioni. Con la soppressione delle barriere doganali in tutta Europa, circoleranno e si consumeranno i prodotti economici di tutta Europa. In tal modo, nessuna industria manterrà la certezza di una base economica nel Paese in cui è impiantata e comincerà una disputa tra le industrie di ogni Paese, per mezzo della propaganda pubblicitaria, per conquistare nuovi mercati o per difendere quelli tradizionali. I formaggi francesi, la birra tedesca e la pasta italiana non sono solo prodotti commerciali, ma simboli di culture e di tradizioni diverse: la guerra economica, combattuta con gli strumenti della moderna tecnica pubblicitaria, tenderà a divenire psicologica e politica. Il mercato comune assomiglierà ad un campo di battaglia, piuttosto che a un centro di aggregazione.
I mercati più deboli saranno invasi da capitali, merci e servizi stranieri ben più competitivi. Sopravviveranno solo le imprese maggiori, capaci di darsi una dimensione multinazionale; alle piccole resterà l’alternativa di accorparsi alle grandi, in posizione subordinata, oppure di fallire.
Come abbiamo già previsto, commentando il “progetto Delors”, “ciò che rende ancora più preoccupante lo scenario è il fatto che questo cataclisma verrà imposto dall’alto, artificialmente e a brevissimo termine, sorprendendo i più deboli nell’impreparazione generale. E’ comunque facile prevedere che esploderà una concorrenza selvaggia che seminerà il caos nell’economia europea; nel Mercato Comune si combatterà una battaglia senza esclusione di colpi. L’Europa, priva dei punti di riferimento fin qui rappresentati dalle frontiere nazionali e dalle barriere doganali, potrebbe cadere vittima di un caos economico generalizzato e devastatore” (8).
L’esproprio della sovranità monetaria
Le tappe successive previste dal Trattato di Maastricht sono:
- IIa fase (a partire dal 1° luglio 1994): Creazione di un Istituto Monetario Europeo (IME) costituito dalle Banche centrali dei Paesi membri, come passaggio intermedio per la successiva
- IIIa fase (a partire dal 1997 e comunque entro il 1° gennaio 1999) che a sua volta prevede:
a) Costituzione di un Sistema europeo di banche centrali (SEBC), comprendente le singole Banche centrali nazionali e una Banca Centrale Europea (BCE), che diverrebbe il detentore e gestore esclusivo delle riserve ufficiali in valuta estera degli Stati membri (Tit. II, art. 105.2).
b) Creazione di una moneta unica puramente fiduciale, l’ECU (Tit. II, art. 3 A), destinata a sostituire le monete nazionali. La BCE costituirebbe l’unica istituzione abilitata ad esercitare una prerogativa tipica dello Stato, quale l’emissione di moneta.
In particolare, secondo il Trattato, non sono i governi e i parlamenti, ma è la Commissione, attraverso la Banca Centrale Europea, a stabilire gli indirizzi di massima per la politica economica dei singoli Stati nazionali (Tit. II, art. 103.2); la BCE è l’unica istituzione che può autorizzare l’emissione di banconote e stabilire la loro quantità (Tit. II, art. 105 A). Il Consiglio può addirittura infliggere sanzioni attraverso l’imposizione di ammende, l’imposizione di un deposito infruttifero invitando la Banca Europea degli Investimenti a riconsiderare la sua politica di prestiti verso quel paese (Tit. II, art. 104 C).
La perdita parte degli Stati europei della sovranità economica e monetaria significa in realtà la cessione di un elemento essenziale della sovranità politica. Si tratta di un punto che aveva ben compreso l’ex premier britannica Margaret Thatcher, la quale più di una volta ha esposto il concetto secondo cui “se si perde la sovranità monetaria e di bilancio, non è molta la sovranità che rimane” (9).
L’esproprio della sovranità politica
L’autorevole voce della Bundesbank ha recentemente ricordato come creare con un atto di autorità una moneta unica europea può essere facile; ben più difficile è assicurare la stabilità monetaria in Europa: a ciò occorrono condizioni economiche, politiche e psicologiche complesse (10). Come immaginare una efficace unificazione economica e monetaria dell’Europa, se manca quella cornice giuridica e politica comune che sola può regolare problemi come quelli dell’immigrazione, della droga e della criminalità organizzata, e assicurare in tal mondo le condizioni necessarie alla stabilità economica e monetaria?
Per realizzare queste condizioni giuridiche e politiche, il Trattato prevede “il ravvicinamento delle legislazioni nazionali nella misura necessaria al funzionamento del mercato comune” (Tit. II, art. G 3 H). Questa armonia politica e legislativa costituisce certamente in sé un bene a cui tendere, quando non violi il diritto naturale, ma non può essere imposta da un vertice burocratico, con il pretesto della necessità di far funzionare il mercato comune. Ciò significherebbe sottrarre agli Stati nazionali il loro diritto a governare la società civile. La sovranità è il contrassegno essenziale di uno Stato. Essa può essere definita come la suprema autorità che lo Stato deve avere, nell’ambito che gli è proprio, per raggiungere il suo fine, che è il bene pubblico dei cittadini (11), ossia la loro vita virtuosa in comune (12). Lo Stato può delegare alcune competenze, in base al principio di sussidiarietà, ma non può eliminare in radice la propria sovranità, come accadrebbe al termine del processo di unificazione di Maastricht. Ciò significherebbe la scomparsa degli Stati nazionali.
La mèta: megastato europeo e microstati regionali
Questo trasferimento di poteri e di competenze fin qui attribuite ai governi e ai parlamenti nazionali, avverrebbe secondo due linee direttive: da una parte verso le istituzioni sovranazionali, cioè verso il “megastato” europeo, dall’altra verso le realtà comunali e regionali, che tenderebbero a divenire veri e propri microstati. Su questa linea si pone l’istituzione di un “Comitato delle Regioni” (Tit. II, art. 198 A), destinato ad assistere il Consiglio e la Commissione, che costituirebbero il “supergoverno” del “megastato”.
Ciò, come ha spiegato il presidente della Commissione europea Jacques Delors parlando il 5 ottobre 1989 al Wissenschaftszentrum di Bonn, “nella sua essenza significa che i poteri del governo centrale sono divisi con quelli delle collettività territoriali pre-esistenti”.
Questo progetto realizza il piano esposto qualche anno fa dal socialista Peter Glotz, nel Manifesto della Sinistra europea nel quale auspicava “il superamento dello Stato nazionale in Europa” che “non dovrebbe avvenire soltanto attraverso una unificazione transnazionale, ma anche attraverso la regionalizzazione e il decentramento” (13) e si indicava “la creazione di una Unione europea” (14), come “prospettiva di lunga scadenza dell’unificazione europea”.
Si tratta della versione aggiornata della grande mèta della Sinistra che è sempre stata e resta l’anarchia, ossia il “mondo nuovo”, destinato a sorgere, per usare le parole di Bakunin, “sopra le rovine di tutte le Chiese e di tutti gli stati” (15). Per questo, afferma lo stesso Bakunin, “i socialisti rivoluzionari si organizzano in previsione della distruzione o, se si vuole una parola più gentile, in vista della liquidazione degli stati” (16) “affinché sulle loro rovine, possano sorgere libere unioni organizzate dal basso grazie alle libere federazioni dei comuni in provincie, delle provincie in nazioni, delle nazioni negli Stati uniti d’Europa” (17).
Una bomba ad orologeria: la cittadinanza europea
In questa prospettiva disgregatrice si situa un capitolo del Trattato di Maastricht che costituisce una vera e propria bomba ad orologeria nel cuore del nostro continente: la attribuzione di una “cittadinanza europea” a ogni cittadino dei diversi Stati nazionali in via di liquidazione.
Il problema della cittadinanza, nazionale od europea, non può essere affrontato senza tener conto dello scenario contemporaneo. Il fallimento del socialcomunismo ad Est e l’altrettanto colossale fallimento della decolonizzazione a Sud hanno aperto un flusso di massicce migrazioni verso l’Europa. Mancano statistiche pienamente attendibili sulla reale consistenza di questa immigrazione; quel che è certo è che si tratta di un fenomeno in aumento, che si accompagna a un preoccupante declino demografico del nostro continente. Non si tratta comunque di un problema secondario se, nel novembre 1991, i ministri di ventisette paesi europei hanno ritenuto necessario incontrarsi a Berlino per discuterlo.
Il Trattato istituisce una “cittadinanza dell’Unione europea” attribuita a “chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro” (Tit. II, art. 81). Tra gli Stati membri dell’Unione però, per quanto riguarda la concessione della cittadinanza agli immigrati di provenienza extra-comunitaria, non esiste attualmente omogeneità legislativa: esistono legislazioni più aperte ed altre più restrittive. Non è difficile immaginare che i flussi migratori si dirigerebbero verso gli Stati dove l’accesso alla cittadinanza fosse più facile, per poi spostarsi per via “intra-comunitaria”, verso quelli che hanno le frontiere “extra-comunitarie” meno elastiche.
Si dirà che questo è uno dei punti su cui è prioritario il riavvicinamento delle legislazioni nazionali previsto dal Trattato; ma se si è così certi che questo riavvicinamento non tarderà, perché non prevedere l’istituzione della cittadinanza dell’Unione solo dopo l’avvenuta uniformità legislativa tra gli Stati?
Gli immigrati alla conquista delle strutture politiche
Ogni cittadino dell’Unione, secondo l’art. 8 A 1 del Trattato, ha “il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri”. La reale portata di questo articolo emerge alla luce di quello seguente, che attribuisce, ad “ogni cittadino dell’Unione residente in uno Stato membro di cui non è cittadino”, “il diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni comunali nello Stato membro in cui risiede, alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato” (Tit. II, art. 8 B 1) ed “il diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni del Parlamento europeo nello Stato membro in cui risiede” (Tit. II, art. 8 B 2) con modalità che verranno stabilite dal Consiglio Europeo rispettivamente entro il 31 dicembre 1994 ed il 31 dicembre 1993.
Queste le prevedibili conseguenze:
a) Il primo obiettivo del migrante extracomunitario sarà quello di ottenere la cittadinanza dell’Unione. Perciò, in assenza di una legislazione rigorosamente uniforme, egli sceglierà il Paese che consente un più facile accesso alla cittadinanza nazionale: questa, automaticamente, comporta la cittadinanza europea.
b) Una volta ottenuta la cittadinanza europea, il secondo passo, sarà quello di spostarsi, in base all’ assoluto diritto di circolazione, verso il luogo di residenza prescelto nel territorio dell’Unione, dove eserciterà i diritti politici.
c) Il diritto di elettorato attivo e passivo di cui fruirà nel luogo di residenza, permetterà al migrante di inserirsi nelle strutture politiche europee a livello locale e a livello sovranazionale, gli unici due livelli politici di rilievo, una volta dissolti gli Stati nazionali.
L’Islam egemone in Europa?
Non si può ignorare che una larga parte degli immigrati extracomunitari è di religione islamica, e che l’Islam non conosce la distinzione cristiana tra ordine naturale e ordine soprannaturale, tra sfera civile e sfera religiosa, ma fonde il sacro e il profano in un’unica prospettiva totalizzante (18).
Gli esponenti islamici in Europa già chiedono che la loro religione goda della stessa tutela che le legislazioni nazionali riconoscono ad altre comunità religiose; ciò significa: riconoscimento civile della poligamia, insegnamento islamico nelle scuole, esonero dal lavoro nelle festività maomettane, e così via.
Il giorno in cui milioni di islamici otterranno la cittadinanza dell’Unione europea è logico immaginare che essi si organizzeranno in un movimento politico, che presenterà i suoi candidati nelle elezioni comunali e nel Parlamento europeo.
Secondo il Trattato sono i partiti politici europei “ad esprimere la volontà politica dei cittadini dell’Unione” (Tit. II, art. 138 A); un “Partito Islamico Europeo”, per la sua capillare diffusione in tutti i territori della Unione, per la sua forza di coesione, allo stesso tempo politica e religiosa, per i suoi mezzi finanziari e per i suoi collegamenti internazionali potrebbe diventare il partito leader del Parlamento europeo; ciò significherebbe l’egemonia politica dell’Islam in Europa, pacificamente conquistata, anzi pacificamente ceduta dagli stessi europei.
Sul piano comunale, inoltre, come escludere la possibilità della concentrazione di un massiccio gruppo di immigrati in qualche città o regione europea?
Chi potrebbe impedire a questi cittadini europei, che godono del diritto di circolazione, di soggiorno e di elettorato, di scegliere una delle città europee più ricche di storia o di significato, per farne una “isola islamica” ed elevarvi i loro minareti?
Per uscire dal caos: salvare gli Stati nazionali
Queste ipotesi si inquadrano in uno scenario inquietante.
L’economia occidentale, che come ha recentemente scritto il premio Nobel francese Maurice Allais, “poggia su una gigantesca piramide di debiti” (19), rivela ogni giorno di più la sua estrema vulnerabilità; problemi sociali come quelli della criminalità e della droga rivelano il profondo vuoto culturale e morale della nostra società; da Est una gigantesca spinta disgregatrice conseguente alla autodecomposizione del comunismo si allarga verso l’Occidente disseminando fermenti di dissoluzione; l’Islam proietta un’ombra preoccupante sull’Europa; il caos minaccia oggi il nostro continente come mai nella sua storia, dal tempo delle invasioni barbariche…E’ ragionevole, in questa situazione, proporsi la liquidazione degli Stati nazionali per avanzare verso un’Unione europea dai contorni così nebulosi e confusi? Gli Stati nazionali costituiscono attualmente l’unico fattore di ordine e di stabilità, nel processo di disgregazione che investe l’Europa, e pensare a dissolverli, proprio in questo momento, costituisce un suicidio politico che ricorda quello compiuto dalla monarchia e dalla nobiltà francese nel 1789.
L’Europa al bivio: suicidio o rinascita cristiana
Egregio onorevole, l’Europa si trova oggi di fronte a un bivio storico.
La ratifica del Trattato di Maastricht innescherebbe un processo di rapida liquidazione degli Stati nazionali; ma ciò significherebbe la disgregazione dell’Europa, che precipiterebbe nell’anarchia e nel tribalismo. Si tratta di un vero e proprio itinerario suicida, coerentemente rivendicato dai teorici della Nuova Sinistra.
D’altra parte, il rifiuto del processo disgregativo di Maastricht costituisce un passo necessario per la rinascita dell’Europa.
Se la parola Europa evoca oggi memorie e speranze è perché essa è già una realtà: una realtà che non viene “inventata” a Maastricht nel 1991, ma che è nata a Roma nella notte di Natale dell’anno 800, con il Sacro Impero di Carlo Magno, e, prima ancora, a Subiaco e a Montecassino, da dove si irradiò la riforma religiosa di san Benedetto da Norcia (20).
Parafrasando le parole di san Pio X nella celebre lettera apostolica Notre Charge Apostolique (21) e quelle di Leone XIII nell’altrettanto celebre enciclica Immortale Dei (22), potremmo dire che l’Europa “non è da inventare”, ma “è esistita ed esiste tuttora”, è la Civiltà cristiana, un tempo unita, pur nella diversità delle sue nazioni, e nella peculiarità dei suoi costumi e delle sue tradizioni, da un’unica filosofia di vita: quella del Vangelo. “L’Europa – conferma Giovanni Paolo II – è cristiana nelle sue stesse radici /…/ Nelle diverse culture delle Nazioni europee, sia in Oriente sia in Occidente /…/ scorre una sola comune linfa attinta ad un’unica fonte” (23). La difesa della nostra Civiltà, occidentale e cristiana, passa attraverso la difesa di queste nazioni e di queste tradizioni. N ella varietà degli Stati nazionali europei si esprime infatti la ricchezza culturale dell’Europa e la sua identità storica e morale.
Il processo rivoluzionario che da oltre cinque secoli ha investito la Civiltà cristiana (24) rappresenta una negazione radicale di questa Europa, della sua identità e della sua storia: l’esito ultimo e coerente di questo processo è il nichilismo anarchico e tribale della Nuova Sinistra.
Un trattato intoccabile?
Il Trattato di Maastricht non è “intoccabile”, così come il processo di unificazione europea in corso non può e non deve essere considerato come un processo “irreversibile”. Già oggi del resto non lo è per la Gran Bretagna e per la Danimarca, che si sono riservate il diritto di non passare alla “terza fase”.
Ci sembra importante sottolinearlo: se c’è un mito oggi in frantumi, è quello della “irreversibilità storica”, cioè di una presunta linearità degli avvenimenti di cui solo a qualche “avanguardia” è dato cogliere il senso. Quando un socialista parla di “irreversibilità storica”, il pensiero corre immediatamente alla interminabile serie di profezie fallite che hanno caratterizzato la storia della sinistra europea negli ultimi due secoli; ma i socialisti, eredi degli Illuministi e di Hegel, continuano a presentarsi come i pervicaci interpreti del “senso della storia”. Quando si parlava di unificazione tedesca, Willy Brandt profetizzava che non sarebbe avvenuta prima della fine del secolo (25); oggi che si parla di unificazione europea, Mitterrand profetizza che entro la fine del secolo inevitabilmente avverrà. Il fondamento di queste profezie è sempre il medesimo: il nulla. L’unica seria previsione che si può fare in questo scorcio di secolo è quella della fine delle false profezie socialiste e del trionfo, questo sì irreversibile, della verità; è in nome di questa verità che ci rivolgiamo a Lei, per chiederLe di intervenire, in una sede così autorevole e significativa quale è il Parlamento europeo, per combattere lo spirito e la lettera del Trattato di Maastricht.
E’ davanti all’opinione pubblica europea che chiediamo la Sua collaborazione, e Le offriamo la nostra, nella ferma convinzione che oggi tutte le forze debbano unirsi nella difesa degli Stati nazionali, dell’Europa e della Civiltà cristiana, così gravemente minacciate dal nichilismo e dal caos, e nella altrettanto ferma certezza che non vi è altra forza su cui fondare questa battaglia, al di fuori di Colui, senza il quale nulla possiamo (Gv. 15, 5), ma con il cui aiuto tutto è possibile (Fil. 4, 13), anche la resurrezione di una gloriosa Civiltà, quale fu e sarà, nel secolo XXI, l’Europa.
Roberto de Mattei
Note
1 Le perplessità dei Parlamentari europei sono evidenti dal Processo Verbale della seduta del 7 aprile, in PE 160.902.
2 Jacques Derrida, Oggi l’Europa, tr. it., Garzanti, Milano 1991, p. 51.
3 Jean Chesnaux, Triomphalisme européen, déchirure planétaire, in Le Monde diplomatique, décembre 1991, p. 24.
4 Edgar Morin, Pensare l’Europa, tr. it. Feltrinelli, Milano 1990, p. 53.
5 J. Derrida, Oggi l’Europa, cit., p. 14.
6 E. Morin, Pensare l’Europa, cit., p. 134.
7 Cfr. il Protocollo sulla transizione alla terza fase dell’Unione economica e monetaria, allegato al Trattato.
8 Roberto de Mattei, 1900-2000, Due sogni si succedono, La Costruzione – La Distruzione, Fiducia, Roma 1990, p. 44.
9 Corriere della Sera, 25 giugno 1990; ma cfr. sopratutto il Discorso di Bruges del 20 settembre 1988.
10 Die Zeit, 7 febbraio 1992; vedi anche Zeitschrift fiir das gesamte Kreditwesen, 15 febbraio 1992.
11 Aristotele, Politica, IV, c. 5,1326 b, 22-30.
12 San Tommaso d’Aquino, De Regimine principum, I, 15.
13 Peter Glotz, Manifesto per una nuova Sinistra europea, tr. it., Feltrinelli, Milano 1986, p. 85.
14 Ivi, pp. 85-86.
15 Mikail Bakunin, La Comune e lo Stato, tr. it. Samonà e Savelli, Roma 1972, p. 55.
16 Ivi, pp. 55-56.
17 Cit. in George Woodcock, L’anarchia, tr. it. Feltrinelli, Milano 1980, p. 142.
18 Cfr. ad esempio, Alessandro Bausani, L’Islam, Garzanti, Milano 1987, pp. 11, 37.
19 Maurice Allais, L’ Europe et les Etats-Unis après Maastricht: questions et réponses, in Le Figaro, 6 febbraio 1992.
20 Il 2 ottobre 1964 a Montecassino Paolo VI proclamava San Benedetto di Norcia Patrono d’Europa. Giovanni Paolo II, con la Lettera Apostolica Egregiae Virtutis del 31 dicembre 1980 (in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, Tipografia Poliglotta Vaticana, Roma, vol. III, 2 (1980), pp. 1833-1836) ha proclamato compatroni d’Europa, accanto a san Benedetto, i santi Cirillo e Metodio, apostoli dei popoli slavi.
21 San Pio X, Lettera apostolica Notre Charge Apostolique, del 25 marzo 1910 in Acta Apostolicae Sedis, vol. 2 (1910), p. 612.
22 Cfr. Leone XIII, Enciclica Immortale Dei del 1 novembre 1885, in Acta Sanctae Sedis, vol. XVIII, p. 169.
23 Giovanni Paolo II, Lettera Apostolica Euntes in mundum del 25 gennaio 1988, in Insegnamenti, cit., vol. XI, 1 (1988), p. 220.
24 Cfr. l’opera capitale del Prof. Plinio Corrêa de Oliveira, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, tr. it. Cristianità, Piacenza 1977.
25 Der Spiegel, 23, 1989, p. 148.

mercoledì 9 maggio 2012

DOPO L'OCCIDENTE

di Ida Magli
La copertina che vedete, cari amici e lettori ...., è quella del libro che ho scritto in quest'ultimo periodo e che sarà fra pochi giorni in libreria. Parla di tutti gli argomenti che ci stanno a cuore: di quale sarà il futuro dell'Italia, dell'Europa, dell'Occidente se non riusciremo a riprendere in mano la guida politica del nostro Paese liberandoci dei banchieri che se ne sono impadroniti e che lavorano di concerto con gli altri banchieri - Banca centrale europea, Fondo monetario internazionale, azionisti privati di tutte le banche del mondo- per eliminare gli Stati nazionali e le rappresentanze parlamentari in modo da avere il campo libero in funzione esclusivamente del potere del denaro, ossia del proprio potere.
Dopo l'Occidente La situazione è quella che stiamo vivendo in Italia in questi giorni, ossia un parlamento che finge di essere vivo, mentre in realtà uccide se stesso e i cittadini che l'hanno eletto. L'Europa è, o sarà presto, tutta nelle nostre stesse condizioni. Io ho soltanto delineato il futuro di un mondo dove la civiltà europea non esisterà più e l'Europa conserverà soltanto il nome geografico ma in realtà sarà abitata da Africani e mediorientali musulmani che, in base alle leggi dell'Antico Testamento e del Corano, distruggeranno tutto quello che ci appartiene: architettura, arte, musica, letteratura, filosofia, diritto, scienza. Ho delineato anche quello che avverrà negli altri paesi più importanti quando l'Europa non ci sarà più: l'impoverimento culturale ed economico dell'America, lo spostarsi verso la Russia e la Cina del centro politico ed economico del mondo, la crisi sempre più grave del cristianesimo e il prevalere dell'islamismo.

Ho ripercorso la storia passata, dai tabù orientali del Sacro all'impurità e all'esclusione delle donne, all'emergere dell'omosessualità nella Chiesa medioevale fino alla crisi letteraria e culturale della Germania e della Russia nella prima metà del '900.

L'ho fatto forse ancora con la speranza di scuotere dall'attuale apatia i cittadini d'Italia e d'Europa; ma soprattutto perchè finalmente divenga chiaro a tutti, attraverso una conoscenza nuova e diversa di quale sia stato l'itinerario del passato, per quale motivo i padroni del denaro hanno bisogno di eliminare coloro che sono stati in grado fino ad oggi di "pensare", di produrre "pensiero"

lunedì 7 maggio 2012

SAN FRANCESCO D'ASSISI : IL SUO SORRISO ERA COME LA LUCE NELLE CATTEDRALI GOTICHE

Intervista con Jacques Le Goff : «Anche se esco dal campo degli studi storici, mi permetto di dire che pur non essendo personalmente né praticante né credente, ammiro il modo in cui la Chiesa è sempre salvata da qualche suo figlio. Mi sembra che proprio la presenza di questi figli, come Francesco, nella storia della Chiesa permetta al cristiano di credere nello Spirito Santo»


Intervista con Jacques Le Goff di Paolo Mattei

Jacques Le Goff
Jacques Le Goff
«Tanto che ’l venerabile Bernardo / si scalzò prima, e dietro a tanta pace / corse e, correndo, li parve esser tardo. / Oh ignota ricchezza! oh ben ferace! / Scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro / dietro a lo sposo, sì la sposa piace». I versi del Paradiso di Dante – nato circa quarant’anni dopo la morte di san Francesco – suggeriscono la manifesta bellezza che riluceva nelle umili fattezze del poverello di Assisi, e la curiosità che questa bellezza muoveva in chi ebbe in sorte di guardarla. Da allora sono scorsi sette secoli, e il santo umbro ha continuato a vivere nella memoria del mondo, non ha cessato di destare curiosità e fascino, la sua figura e la sua storia sono state oggetto di studi puntuali e rigorosi ovvero fantasiosi e stravolgenti, di biografie colorate, di pièces teatrali, di film belli e brutti, di canzoni e di poesie…
La ricchezza di espressività umana, e anche di affetto e devozione sinceri, fiorita nei secoli attorno a quest’uomo può suscitare malumore solo in chi guardi con sussiegosa alterigia alle vicende del mondo, mentre per chi conservi anche solo un briciolo di semplicità di cuore, tutto questo può accendere, come minimo, una curiosità buona sulla vicenda terrena dell’Assisiate.
Questa curiosità si è accesa anche nel professor Jacques Le Goff, che nella storia di Francesco si è imbattuto percorrendo la sua strada di studioso del Medio Evo. Come dire, l’ha incrociato facendo il suo quotidiano tragitto lavorativo. Ed è rimasto colpito da quest’uomo «ai margini della Chiesa ma senza cadere nell’eresia, ribelle senza nichilismo», con un «fisico ordinario e splendore eccezionale», si legge nella prefazione del suo recente libro San Francesco d’Assisi (Editori Laterza, Roma-Bari 2000). Nato a Tolone nel 1924, Le Goff è stato protagonista del rinnovamento storiografico avviato dalla “scuola” della rivista Annales. Économie, sociétés, civilisation, di cui fu per lungo tempo direttore. Insegna all’École des hautes études en sciences sociales. Lo abbiamo incontrato per rivolgergli alcune domande a Roma, dove ha ricevuto la laurea honoris causa in Lettere che l’Università “La Sapienza” ha voluto consegnargli.
Professore, ci spieghi il suo interesse per san Francesco.
JACQUES LE GOFF: Il mio interesse per san Francesco ha una duplice origine. Innanzitutto nasce dalla lettura dei suoi scritti, in particolare del celebre Cantico di frate sole. Mi ha subito commosso la carità così umana e poetica di questo uomo. Un uomo, un santo, legatissimo all’ambiente in cui è nato e vissuto, Assisi e l’Umbria: quando ho visitato quei posti, da molto giovane, l’ho immaginato ancora presente là, sulle stesse strade, immerso nel medesimo particolare paesaggio.
In secondo luogo, siccome sono un medievalista, mi è sembrato che san Francesco fosse il testimone eccezionale di quel momento molto importante della storia medievale in cui, accanto al fenomeno delle eresie, compare e si sviluppa una nuova società originata da un intenso movimento di urbanizzazione, in una certa maniera simile alle grandi ondate di esplosione urbana del XIX e, poi, del XX secolo. A partire grosso modo dall’anno mille ha inizio in Occidente un poderoso sviluppo demografico ed economico, con un conseguente spettacolare fenomeno di urbanizzazione. Crescono quindi decisamente le attività commerciali, e la città, centro del potere, è il luogo principale in cui avvengono transazioni economiche che esigono sempre più cogentemente il ricorso al denaro, alla moneta. Nascono i cambiatori, che presto si trasformeranno in banchieri, sostituendo in questo ruolo sia i monasteri – istituti di credito sufficienti ai deboli bisogni dell’alto Medioevo – sia gli ebrei, relegati al ruolo di “prestatori di consumo”. La disuguaglianza tra le persone scaturisce ora dal gioco economico e sociale, non si fonda più sulla nascita e sul sangue, ma sulla fortuna immobiliare e mobiliare, sulla proprietà del suolo o degli immobili urbani, di censi e rendite, di denaro. È, poi, il Medioevo di san Francesco, un momento di forte immigrazione nelle città che si riempiono di uomini e donne sradicati, poveri…
Si intravvedono, mutatis mutandis, alcune piccole somiglianze con la nostra epoca…
LE GOFF: Non sono tra quelli che credono ad una ciclicità della storia. La storia non ricomincia, non si ripete. Tuttavia ritengo che ci siano certe analogie tra questo periodo del Medioevo e il nostro. Anche noi vediamo il potere del denaro divenire sempre più forte e più decisivo nella formulazione dell’identità delle persone.
Come si pone Francesco di fronte a questi profondi cambiamenti del suo tempo?
LE GOFF: San Francesco è l’esempio sorprendente di un uomo aperto verso la nuova società, con tutti i suoi mali e le sue contraddizioni. Egli è un uomo che osserva con simpatia, con amore, senza livore gli uomini del suo tempo, pieni allo stesso tempo di peccati e di bellezza creaturale. È inevitabilmente un apostolo della nuova società. Ma, nel medesimo momento, predica pure, per dir così, la “resistenza” nei confronti di chi auspica una cattiva evoluzione delle cose, e in particolare nei riguardi di chi desidera e lavora per una vittoria del “regno del denaro”. Mi sembra che in Francesco coesistano prodigiosamente due atteggiamenti che normalmente è impossibile far convivere: l’apertura e la “resistenza”.
La rinuncia agli averi: affresco del ciclo francescano di Giotto nella Basilica Superiore di Assisi
La rinuncia agli averi: affresco del ciclo francescano di Giotto nella Basilica Superiore di Assisi
E le istituzioni ecclesiastiche, come reagiscono a questa situazione?
LE GOFF: La Chiesa, e più specificatamente il potere papale, si rafforza. La Chiesa, attraverso le sue strutture, si impegna, in questa epoca di grandi cambiamenti, in un lavoro di “aggiornamento”. Ma non riesce ad “inseguire” il mondo che si muove più velocemente di lei. E subisce molteplici ed indicativi scacchi: la crociata, per esempio, che è ora incapace di suscitare gli entusiasmi di un tempo ed è impotente contro i musulmani; e poi la lotta all’eresia, un altro scacco subito all’interno della stessa cristianità. Francesco, davanti a questi mutamenti, rinnova profondamente la vita della Chiesa rimanendo attaccato alle cose essenziali della Tradizione. I sacramenti, soprattutto. E l’amore ai poveri.
«Francesco e Povertà per questi amanti / prendi oramai nel mio parlar diffuso» dice san Tommaso a Dante nell’XI del Paradiso
LE GOFF: Infatti Francesco fa della povertà il suo valore spirituale supremo. Ne fa, come suggerisce Dante, la sua sposa e signora. La chiama Domina Paupertas, Paupertas altissima. D’altronde, come ho detto, all’epoca di san Francesco, è grande il problema della sofferenza dei poveri, il fatto della povertà. E la povertà praticata come ideale di vita evangelica in contrasto con l’accumulazione di beni terreni da parte della Chiesa e dei fedeli è, dalla fine dell’XI secolo, la parola d’ordine di tutti i pauperes Christi, i «poveri di Cristo», che popolano la cristianità. Francesco, che considerava la pratica della povertà basilare regola del suo ordine, non cedette però alla tentazione eretica in cui invece cadde la gran parte di questi “poveri”, perché egli era attaccato visceralmente a ciò che considerava fondamentale per la vita cristiana e per la salvezza: i sacramenti, specialmente l’Eucarestia. Se nella povertà, come nella natura, nel creato, insomma nella realtà concreta Francesco, senza il minimo sentore di panteismo, vede la presenza di Dio, nello stesso tempo gli è chiaro che l’incontro fra Dio e l’uomo si realizza efficacemente e pienamente per mezzo dei sacramenti.
In questo periodo, inoltre, tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo, si procede a un nuovo “trattamento teologico” dei sacramenti. Viene redatto il trattato De Sacramentis. Francesco, nel suo sentimento profondo della necessità dei sacramenti, sa che la loro amministrazione, la loro offerta deve passare attraverso persone che hanno ricevuto un riconoscimento speciale, ossia i preti. Essi sono consacrati dall’ordinazione; hanno ricevuto essi stessi un sacramento, quello dell’ordine, che li rende sacri. Francesco si separò da tutti i “contestatori”, come li chiameremmo oggi, dell’epoca, i quali quasi tutti divenivano eretici, erano contro i sacramenti, contro il clero corrotto e indegno che li somministrava. Lui pensa che ci sia un assoluto bisogno dei preti proprio perché sono chiamati a dare i sacramenti. Anche se non sono, per così dire, dei “buoni preti”. La Chiesa, mater Ecclesia come si diceva all’epoca, persino se è corrotta resta la madre, e dunque non si può abbandonarla. Bisogna aiutarla a riformarsi, ma non si può uscire dalla Chiesa. L’uomo che esce dalla Chiesa – e l’eresia è un modo di uscire dalla Chiesa – è un uomo che ha perso Dio. Perdere la Chiesa probabilmente non sarebbe così importante, se essa non fosse l’intermediaria, attraverso i sacramenti, fra l’uomo e Dio.
Nel suo libro c’è una sottolineatura significativa della gioia francescana, del sorriso nella vita di Francesco.
LE GOFF: La gioia, e in particolare la gioia terrena – poiché la gioia di Francesco è una gioia terrena – è riflesso e “atrio” della gioia piena del Paradiso. La gioia non era una peculiarità del Medioevo, e in particolare non era una caratteristica monastica. Ho fatto ricerche sulle abitudini dell’ambiente monastico, sulla spiritualità monastica riguardo il ridere. E il ridere era spesso considerato come un peccato. Talvolta era giudicato come qualcosa di diabolico. San Francesco possiede la straordinaria capacità di ribaltare questa posizione innestandosi nella tradizione monastica. Egli non è rivoluzionario, non rompe con la tradizione dei monasteri ma vi apporta una freschezza di novità anche riguardo alla gioia. Anche il ridere è un dono di Dio. Nel Cantico di frate sole, in cui tutti gli avvenimenti, i fenomeni della natura, visti ed amati innanzitutto nel loro essere sensibile, nella loro bellezza materiale, sono descritti come fratelli e sorelle dell’uomo, anch’essi creati da Dio (persino la morte, «sora nostra morte corporale»), anche il sorriso, il sorriso del creato è, per così dire, nostro fratello. Il sorriso, il volto sorridente di un compagno, invita con naturalezza chi lo guarda a essere lieto di questo anticipo di Paradiso. C’è in questo, indubbiamente, una grande novità, una «sancta novitas» come dice Tommaso da Celano quando parla del francescanesimo. Direi, in modo metaforico, che questo sorriso di Francesco, questo illuminarsi del suo volto corrisponde all’illuminarsi delle cattedrali gotiche. Attraverso la luce del sole che penetra in esse si vede la loro bellezza, si vede il loro “sorriso”. Le chiese gotiche sono al loro interno piuttosto buie, a richiamare il peccato, il buio della vita in cui l’uomo si ritrova, l’oscurità dell’esistenza. Poi, però, c’è lo squarcio della luce che entra e che mostra soprattutto l’attrattiva di Dio, l’attrattiva del Paradiso.
Attraverso questa «sancta novitas» la Chiesa è stata salvata…
LE GOFF: Anche se esco dal campo degli studi storici, mi permetto di dire che pur non essendo personalmente né praticante né credente, ammiro il modo in cui la Chiesa è sempre salvata da qualche suo figlio. Mi sembra che proprio la presenza di questi figli, come Francesco, nella storia della Chiesa permetta al cristiano di credere nello Spirito Santo. San Francesco è stato uno dei grandi ispirati dallo Spirito Santo e così ha salvato la Chiesa, poiché questa rischiava di perdersi nelle derive della nuova società, della nuova economia, delle vecchie e nuove eresie. Egli le ha ridato un senso apostolico. «Per lui si sono ripetuti gli antichi miracoli, quando, nel deserto di questo mondo, all’antica maniera, ma con mutato ordine, è stata piantata la vite fruttifera», dice ancora Tommaso da Celano nella Vita prima. Francesco ha voluto salvare le cose essenziali. E non ha voluto estendere la sua regola a tutta l’umanità. Desiderava solo condividerla con i suoi amici, coi suoi compagni. Ed essi mantennero desta un’inquietudine, un fermento buono anche di fronte all’ascesa del benessere, alla seduzione crescente del denaro, alle eresie. Di fronte, insomma, a quei grandi cambiamenti epocali.

STORIA DELLA CHIESA
tratto dal n. 10 - 2000 - 30 GIORNI nella Chiesa e nel mondo