martedì 24 luglio 2012

Patti Smith: quell’amore per San Francesco lascia traccia nell’ultimo disco

E’ “Costantine’s Dream”, canzone suggerita dall’incontro della cantante americana con un famoso affresco di Piero della Francesca, “Il Sogno di Costantino”, custodito nella Basilica di San Francesco ad Arezzo. Ancora una volta per Patti Smith l’esperienza umana trova la sua dimensione ideale nella trascendenza della musica, che lei plasma con affascinanti estetismi, in cui il reading impreziosisce la parte cantata, mettendo l’accento sulla potenzialità suggestiva della poesia, al centro della sua intera opera.

‘Oh, Signore, fa’ di me lo strumento della Tua Pace; Là, dove è l’odio che io porti l’amore. Là, dove è l’offesa che io porti il Perdono. Là, dove è la discordia che io porti l’unione. Là, dove è il dubbio che io porti la Fede. Là, dove è l’errore che io porti la Verità. Là, dove è la disperazione che io porti la speranza. Là, dove è la tristezza, che io porti la Gioia. Là, dove sono le tenebre che io porti la Luce’, è una voce in italiano a recitare una parte della ‘Preghiera semplice’ nella traccia numero 11.
 http://www.youtube.com/watch?v=NBEDTeFzDQE&feature=share
 

domenica 15 luglio 2012

IL VUOTO (LA VACANZA) È LO STAMPO DI DIO

CHIEDIAMO ALL'INFINITO
di  Alessandro D'AVENIA


Leggevo in questi giorni uno spietato romanzo
sulla vita di un rapinatore e assassino
degli anni 50, ambientato nei bassofondi di Los Angeles.

 Dopo aver messo a segno un
colpo da mezzo milione di dollari, si ritrova in una casa
 con vista sul mare a godersi il bottino:
«Quando sono arrivato quaggiù è stato come arrivare
 alla fine dell’arcobaleno, nel luogo
baciato dal sole che appartiene ai sogni di tutti.
Era tutto quello che desideravo dalla vita:
semplicità, una spiaggia, la pace. Ma la pace
si è trasformata in noia e solitudine». Giorno
dopo giorno la noia lo assale, lo divora da
dentro. Non basta mezzo milione di dollari da
spendere in divertimenti a trovar pace. Ha bisogno
di riempire il vuoto e allora, pur sapendo
di rischiare la cattura dal momento che
è un super-ricercato, comincia a preparare un
altro colpo.
Ci si può annoiare anche in vacanza, e siamo
disposti persino a scegliere il rischio pur di lenire
il vuoto profondo che ci afferra.
Il vuoto. Non credo che in altre epoche della
storia sia stato concesso il privilegio di sentire
la morsa disperante del non senso, come
nella nostra o almeno nella forma cristallina
che ha raggiunto oggi.
C’è stata un’epoca in cui gli uomini sapevano
di essere finiti, dentro l’infinito di Dio, e per
questo interpretavano ogni cosa finita come
segno dell’infinito. Venne poi un’epoca in cui
il finito si rese autonomo dall’infinito ed esplorò
tutti gli angoli della sua finitezza, scoprendo
cose che prima non sospettava. Si sentì
più solo, ma sapeva di essere sorvegliato dall’infinito,
così si rassicurava anche se cominciava
ad averne paura. Venne poi un tempo, il
nostro, in cui il finito non volle essere più rassicurato
né impaurito, accantonò l’infinito e
si rese del tutto autonomo, tanto da diventare
infinito o credere di esserlo. Il prezzo pagato
fu che insieme alla sua raggiunta infinitezza
sperimentò l’infinitezza del suo limite: emerse
il vuoto in forma nitida, come uno
stampo svuotato, perfettamente pulito, ma
privo della sua sostanza.
Si decise allora di riempirlo dell’ottimismo
delle "cose da fare" per scacciare quel vuoto,
ma nessuna coincideva con lo stampo e le
troppe cose si rivelarono ingombranti, e si
rompevano pure. Nacque così la vacanza: per
svuotare di nuovo lo stampo dalle cose di cui
lo si era riempito, e tornò la violenta evidenza
del vuoto e si desiderò tornare al pieno di
cose da fare, pur di non sentire con tale forza
l’assenza perturbante. E si cominciò a pendolare,
inquieti. Riempi e svuota.
L’assenza di infinito ci costringe a rendere infinito
tutto: lavoro e vacanza. Andiamo in vacanza
come uno che spegne il computer
quando è andato in tilt, perché il lavoro è solo
schiavitù funzionale a guadagnarsi la vacanza.
Trattiamo l’anima come un interruttore:
on/off. E non troviamo pace.
Cesare Pavese in alcune delle sue poesie più
belle di Lavorare stanca dipinge questo tedio
che ci sorprende all’alba o alla sera: «Poi la
notte, che il mare svanisce, si ascolta / il gran
vuoto ch’è sotto le stelle... / L’uomo, stanco di
attesa, / leva gli occhi alle stelle, che non odono
nulla... / Non c’è cosa più amara che l’alba di
un giorno / in cui nulla accadrà... / Vale la pena
che il sole si levi dal mare / e la lunga giornata
cominci?».
Attendiamo la vacanza come se potesse risolvere
il nostro infinito desiderio di felicità, minacciato
dalla schiavitù del lavoro, ma la vacanza,
impietosa, ci mostra il vuoto che abbiamo
coperto con i troppi impegni feriali.
Così l’attesa si fa ancora più dolorosa e delusa
e le stelle in cui avevamo sperato non ci ascoltano.
Cerchiamo la compagnia in spiagge
affollate e locali rumorosi, che pochi giorni
prima fuggivamo. Cerchiamo divertimenti
ancora più impegnativi di un lavoro che avevamo
vissuto come alibi al vuoto. E non troviamo
pace, perché l’anima non è un interruttore
e il corpo la sua lampadina che prima
o poi si fulmina, ma un’unità che ha pace solo
quando è unità.
Per questo credo che, suo malgrado, l’uomo
di quest’epoca, guardando lo stampo mal
riempito o vuoto, potrà più facilmente chiedere
all’infinito di tornare. L’infinito lo ascolterebbe
e si riverserebbe subito dentro di lui,
come una grazia, colmandone di pace ogni
angolo. Il tedio non è da disprezzare: altro non
è che la percezione dell’assenza dell’immagine
che siamo. L’immagine del Dio fatto carne.
( L'Avvenire - 15.07.2012 )