mercoledì 29 ottobre 2014

FRANCESCO D’ASSISI A ROMA – Il primo viaggio



Nell’anno del Signore 1206 Francesco era un giovanotto di circa ventidue anni.  Se pensiamo ad un coetaneo dei nostri giorni , ad un figlio magari o ad un amico, ci rendiamo conto che a quei tempi si cresceva più in fretta, si affrontavano prima le grandi responsabilità della vita, si era già uomini  e maturi in un arco di tempo decisamente più breve di quanto la nostra gioventù possa oggi immaginare.
Nonostante la sua età, Giovanni , figlio di Bernardone, detto “ il francese “ a causa dei numerosi viaggi che il padre compiva in quella regione a motivo dei suoi commerci e per l’educazione ricevuta dalla madre di origine provenzale, aveva già vissuto con intensità alcune tappe fondamentali della storia di Assisi ed assaporato gioie e dolori di un’infanzia spensierata finita troppo presto nelle carceri di Perugia. Minato nel corpo da una misteriosa malattia contratta proprio durante quella prigionia, guarito ma non troppo e forse più ferito nell’anima che nel fisico, Francesco aveva visto sgretolarsi nell’arco di pochissimi anni le poche sicurezze che lo avevano accompagnato durante la sua formazione nella casa paterna.  Primo fra tutti il sogno di conquistarsi uno status sociale più elevato , la gloria del cavaliere , e il trionfo tramite la potenza delle armi. Una sensazione di vuoto e di sgomento si insinuava tra le macerie delle proprie ambizioni e non trovava pace perché nè i genitori, né gli amici, né qualche nobile e potente signore, era  riuscito a colmare il suo intimo desiderio di pienezza e di senso.
            Fu allora , nel momento in cui l’orizzonte delle sue ambizioni terrene si era dissolto, nel momento in cui nessuno sembrava in grado di indicargli una strada che lo conducesse a realizzarsi  nella vita, nel momento in cui nessuno gli diceva cosa dovesse fare, proprio allora  decise di rivolgersi a Dio, al Signore di tutti i signori. E pregando, invocando, supplicando decise di farsi mendicante, prima nell’’anima, perché il senso della sua vita , solo allora lo stava comprendendo, poteva essergli “ donato “  soltanto su sua umile ed incessante richiesta. Un mendicante affamato di vita e di significato che bussava testardo ed ostinato alla porta di Cristo.
            Fu a Cristo che si rivolse , a lui chiese spiegazioni ed ai suoi legittimi rappresentanti in Terra. Molti a quei tempi preferivano seguire vie più facili ma presto si allontanavano dalla strada giusta finendo in poco tempo ad ingrossare le fila dei movimenti ereticali. Non così Francesco, che se pur giovane, non rinunciò mai a percorrere i sentieri più impervi e faticosi dell’ortodossia. Sono noti i suoi ottimi rapporti col vescovo di Assisi e con i suoi preti di campagna. Ma prima ancora di ricorrere al Vescovo egli pensò bene di recarsi in pellegrinaggio a Roma dove avrebbe potuto pregare agevolmente lo stesso Principe degli Apostoli.

Così recita una bella orazione di S. Ambrogio:

Cristo è tutto per noi.
Se vuoi curare una ferita, egli è medico;
se sei riarso dalla febbre, è fontana;
se sei oppresso dall’iniquità, è giustizia;
se hai bisogno di aiuto, è forza;
se temi la morte, è vita;
se desideri il cielo, è via;
se fuggi le tenebre, è luce;
se cerchi cibo, è alimento.


Forse Francesco non conosceva questi versi di Sant’Ambrogio, ma ne condivise pienamente lo spirito.
Nei primi anni del XIII secolo Roma era molto diversa da come possiamo figurarcela noi oggi. E soprattutto non era affatto la grande metropoli che conosciamo tutti.  Invasioni, epidemie e pessime condizioni di vita avevano ridotto l’antica capitale dell’Impero Romano che ai tempi di Augusto vantava quasi un milione di cittadini, in un piccolo centro con una popolazione di certo inferiore agli ottantamila abitanti. Questa infatti, da molto tempo ormai  , aveva abbandonato la città per rifugiarsi nelle campagne o sulle alture fortificate meglio protette, portando a compimento quel processo di ruralizzazione e di abbandono dei centri urbani iniziato già nel V secolo d.C.

I domini delle grandi famiglie occupavano zone diverse della città, dove queste risiedevano in dimore fortificate e dominate da torri, che costituivano con la loro altezza un segno di ricchezza e potenza. Tra di esse i Conti di Tuscolo (Quirinale, dove furono quindi rimpiazzati dai Colonna) e i Crescenzi (rioni Ponte e Parione, dove in seguito ebbero sede gli Orsini), i Frangipane (Palatino e Colosseo) e i Pierleoni (rione Ripa, isola Tiberina e Trastevere), e in seguito i Conti di Segni (Viminale), i Savelli (Aventino e rione Ripa), i Caetani (Quirinale e isola Tiberina), gli Annibaldi (Colosseo ed Esquilino) e i Capocci (Viminale). Qua e là tra i ruderi delle antiche vestigia imperiali si ergevano invece chiese,  basiliche  e monasteri.




La stessa Basilica di San Pietro, dove, secondo la storia , Francesco si recò pellegrino scambiando i suoi preziosi abiti con quelli d’un povero, era quella fatta costruire dall’imperatore  Costantino nel IV secolo d.C. Dimentichiamoci dunque quella odierna  con la cupola di Michelangelo , la piazza rotonda ed il colonnato che imponente, sembra abbracciare il visitatore. La sua costruzione fu lunga e laboriosa, iniziando  nel 1452 per concludersi definitivamente  nel 1626 quando fu consacrata da Urbano VIII.  Non questo videro gli occhi di Francesco ma una struttura sensibilmente più piccola, pur nella sua maestà rapportata agli edifici dell’epoca, una basilica con ben cinque navate, sul modello di quella del Laterano.
Per avere un’idea di come questa basilica apparisse in quel periodo, il luogo migliore da visitare é la chiesa di San Paolo Fuori le Mura. Vi sono alcune differenze fra queste due costruzioni, ma é possibile capire quanto fosse grande una chiesa con cinque navate e come potesse funzionare ecumenicamente.  Nell’immenso transetto di San Pietro, i pellegrini potevano radunarsi per venerare i grandi Apostoli, le cui reliquie giacevano sotto un baldacchino sistemato sopra quattro colonne attorcigliate di bronzo, davanti all’abside. Di fronte alla basilica vi era un atrio, con una fontana a forma di un cono di pino dove molti mendicanti e poveri chiedevano l’elemosina. La facciata aveva ricche decorazioni in mosaico, mostrando il simbolo di Cristo con gli Apostoli. La navata era lunga 91 metri e terminava in un arco trionfale, con mosaici che mostravano Costantino che donava la basilica. Al di là, l’abside aveva un mosaico in cui erano raffigurati  il Cristo con Pietro e Paolo e sulle pareti della navata vi erano affreschi che mostravano scene dalla Bibbia e ritratti dei Papi.















Ecco come le Fonti francescane raccontano l’episodio:

VESTITO DA POVERO, MANGIA CON I POVERI
DAVANTI ALLA CHIESA DI SAN PIETRO

2Cel 8 FF 589


8. Fino da allora dimostrava di amare intensamente i poveri e questi inizi lodevoli lasciavano prevedere cosa sarebbe stato, una volta giunto a perfezione. Spesso si spogliava per rivestire i poveri, ai quali cercava di rendersi simile, se non ancora a fatti almeno con tutto l'animo. Si recò una volta in pellegrinaggio a Roma, e, deposti, per amore di povertà, i suoi abiti fini, si ricoprì con gli stracci di un povero. Si sedette quindi pieno di gioia tra i poveri, che sostavano numerosi nell'atrio, davanti alla chiesa di San Pietro e, ritenendosi uno di essi, mangiò con loro avidamente. Avrebbe ripetuto più e più volte azioni simili, se non gli avessero incusso vergogna i conoscenti. Si accostò poi all'altare del Principe degli Apostoli e, stupito delle misere offerte dei pellegrini, gettò là denaro a piene mani. Voleva, con questo gesto, indicare che tutti devono onorare in particolare modo colui che Dio stesso ha onorato al di sopra degli altri.


LegM 1,6;  FF 1037

Durante questo periodo, egli si recò a visitare, con religiosa devozione, la tomba dell'apostolo Pietro. Fu in questa circostanza che, vedendo la grande moltitudine dei mendicanti davanti alle porte di quella chiesa, spinto da una soave compassione, e, insieme, allettato dall'amore per la povertà, donò le sue vesti al più bisognoso di loro e, ricoperto degli stracci di costui, passò tutta la giornata in mezzo ai poveri, con insolita gioia di spirito.
Voleva, così, disprezzare la gloria del mondo e raggiungere gradualmente la vetta della perfezione evangelica. Si applicava con maggior intensità alla mortificazione dei sensi, in modo da portare attorno, anche esteriormente, nel proprio corpo, la croce di Cristo che portava nel cuore.
Tutte queste cose faceva Francesco, uomo di Dio, quando, nell'abito e nella convivenza quotidiana, non si era ancora segregato dal mondo.

3Comp 10. FF 1406


Avvenne in quel torno di tempo che Francesco si recasse a Roma in pellegrinaggio. Entrato nella basilica di San Pietro, notò la spilorceria di alcuni offerenti, e disse fra sé: "Il principe degli Apostoli deve essere onorato con splendidezza, mentre questi taccagni non lasciano che offerte striminzite in questa basilica, dove riposa il suo corpo". E in uno scatto di fervore, mise mano alla borsa, la estrasse piena di monete di argento che, gettate oltre la grata dello altare, fecero un tintinnio così vivace, da rendere attoniti tutti gli astanti per quella generosità così magnifica.
            Uscito, si fermò davanti alle porte della basilica, dove stavano molti poveri a mendicare, scambiò di nascosto i suoi vestiti con quelli di un accattone. E sulla gradinata della chiesa, in mezzo agli altri mendichi, chiedeva l'elemosina in lingua francese. Infatti, parlava molto volentieri questa lingua, sebbene non la possedesse bene.
             
Si levò poi quei panni miserabili, rindossò i propri e fece ritorno ad Assisi. Insisteva nella preghiera, affinché il Signore gl'indicasse la sua vocazione. A nessuno però confidava il suo segreto né si avvaleva dei consigli di alcuno, fuorché di Dio solo e talvolta del vescovo di Assisi. In quel tempo nessuno, in effetti, seguiva la vera povertà, che Francesco desiderava sopra ogni altra cosa al mondo, appassionandosi a vivere e morire in essa.


Scrive  Padre Fernando Uribe [1] “La presenza di Francesco a Roma è legata anzitutto al suo senso di fedeltà alla Chiesa. Egli volle sempre vivere la sua avventura evangelica in seno alla Chiesa e in comunione con i suoi pastori.”

Non è un caso se uno dei momenti più significativi del suo cammino di conversione e di realizzazione vocazionale abbia coinciso con la visita alla tomba del Principe degli Apostoli. Una lezione importante per chiunque pensi di poter seguire Cristo facendo a meno della guida e del magistero dei suoi vicari in terra. 
             
                                                                                              Antonio Fasolo Ofs






( continua )




[1] ” Itinerari Francescani “  ( Ed.  Messaggero di Padova – Padova 1997 ) p.22


sabato 25 ottobre 2014

E FERMAMENTE VOGLIO OBBEDIRE...

La scelta di Francesco subordinata nelle relazioni

di Grado Giovanni Merlo docente di Storia del Cristianesimo presso l’Università degli Studi di Milano
Merlo 01Sudditi di tutti
Il Duecento è il secolo in cui in modo più evidente e clamoroso si espresse la plenitudo potestatis, la «pienezza di potere» del papa della cristianità latina. Essa significò ierocrazia, vale a dire la volontà di “dominio del mondo” da parte del “sacerdozio”. Di ciò frate Francesco non si interessa. La sua scelta religiosa comporta la rinuncia a qualsiasi posizione ed esercizio di potere nella società e nella Chiesa.
Il suo francescanesimo è subordinativo e ciò incide pure nella definizione e nella realizzazione delle relazioni con e tra i suoi fratelli/frati. Le attestazioni sono numerose. È sufficiente scorrere i vari capitoli della Regola non bollata del 1221 per averne una prima chiara visione.
Nel capitolo V, per esempio, si legge: «Tutti i fratelli non abbiano potere o signoria (potestas vel dominatio), soprattutto tra di loro. Come infatti dice il Signore nel vangelo: I principi delle nazioni dominano su di esse e i più grandi esercitano su di esse il potere. Non così tra i fratelli. Ma chiunque vorrà farsi grande tra di essi, sia loro ministro e servo. E chi è il maggiore tra di loro diventi come il minore». Ancora, nel capitolo VII si trovano espressioni oramai famose: «Tutti i fratelli, in qualunque luogo si trovino a servire o a lavorare presso altri, non siano tesorieri né cancellieri, né siano a capo nelle case in cui servono, né accettino alcun ufficio che crei scandalo o arrechi danno alla loro anima, ma siano minori e sudditi di tutti quelli che sono in quella stessa casa».Nel capitolo precedente della stessa Regola non bollata si rinvengono parole altrettanto importanti: «E nessuno sia chiamato priore, ma generalmente tutti si chiamino fratelli minori; e l’uno lavi i piedi all’altro». All’interno o all’esterno della fraternità per il fratello/frate è inaccettabile una posizione di dominio. Su ciò non esiste alcun dubbio, né necessita qui moltiplicare le citazioni dagli Scritti francescani. Il potere, espresso dai termini latini potestas e dominatio, è del tutto estraneo all’ispirazione di fondo di frate Francesco, alla sua volontà di «vivere secondo il modello del santo vangelo». La “sequela del Cristo” significa adeguarsi al principio contenuto nel Vangelo di Matteo (20,28) che recita: «Non sono venuto per essere servito, ma per servire». Questo versetto, con ogni probabilità, doveva ritornare non raramente sulla bocca di frate Francesco, se qualcuno ne sintetizzò il dire in una delle cosiddette Ammonizioni, nella quale il versetto stesso viene così commentato: «Coloro che sono costituiti sopra gli altri, si glorino tanto di quella prelatura quanto se fossero destinati all’ufficio di lavare i piedi dei fratelli. E quanto più si turbano se viene loro tolta la prelatura che se fosse loro tolto il compito di lavare i piedi, tanto più mettono insieme per sé un tesoro fraudolento a pericolo della propria anima» (Am IV: FF 152).
Merlo 02 (Ivano Puccetti)La rinuncia alla guida
Non occorre insistere ulteriormente sul “servizio” come alternativa totale al “potere”, anche religioso ed “ecclesiastico”. Tuttavia, non è difficile immaginare che nella fraternità, prima, e nell’Ordine, dopo, problemi di guida e di convivenza potessero porre concrete esigenze di assumere atteggiamenti e di compiere azioni forzatamente non subordinativi, cioè, in altri termini, dominativi. Come si sarebbe comportato frate Francesco in circostanze del genere? Sappiamo che, quando fu costretto a tornare in Italia dall’Oltremare per l’emergere tra i fratelli/frati di scelte e comportamenti non conformi alle sue convinzioni, nel 1220 egli si rivolge a papa Onorio III per ottenere un cardinale che provvedesse a garantire la “disciplina” tra i frati minori: lo ottiene, scegliendo il potentissimo cardinale Ugolino d’Ostia (futuro papa Gregorio IX). Segue la decisione di frate Francesco di rinunciare alla guida “istituzionale” della fraternità, pur mantenendo la sua presenza esemplare in mezzo ai fratelli/frati.
La Chiesa romana è individuata come potere garante della “disciplina” dei fratelli/frati. La stessa Regola bollata del 1223 si conclude con l’espresso invito di frate Francesco ai fratelli/frati «di chiedere al signor papa uno dei cardinali della santa romana Chiesa, che sia governatore, protettore e correttore di questa fraternità»: il potere, dunque, in mano a chi istituzionalmente lo ha e lo deve gestire. Non è per caso che quelle parole precedano la precisazione della finalità attribuita alla presenza del cardinale («governatore, protettore e correttore»), così espressa: «affinché sempre sudditi e sottomessi alla stessa santa Chiesa, stabili nella fede cattolica, osserviamo la povertà e l’umiltà e il santo vangelo del Signor nostro Gesù Cristo che abbiamo fermamente promesso». 
Secondo il santo vangelo
Il potere degli uomini di Chiesa diventa qui una sorta di protezione che renda possibile la fedeltà al «vivere secondo il modello del santo vangelo». La cosa è senza dubbio sorprendente per una mentalità “moderna”, oggi assai diffusa, che giudica i prelati della Chiesa medievale in modo pregiudizialmente negativo, arrivando sino al punto di affermare, in maniera del tutto arbitraria e sbagliata, che Francesco d’Assisi avrebbe rischiato, in quanto vicino agli eretici, di essere messo al rogo! Egli è invece obbediente e sottomesso agli uomini di Chiesa, persino ai sacerdoti «più poverelli di questo secolo», che considera addirittura suoi «signori». Ma nei confronti dei suoi fratelli/frati?
Il discorso qui si fa complesso e articolato, poiché è sufficiente leggere i testi della Regola non bollata, della Regola bollata e del Testamento per scoprire una serie di espressioni che sembrerebbero esprimere una volontà di “dominio”, una intenzione di “potere” da parte di frate Francesco, per esempio, là dove nei suoi Scritti utilizza verbi alla prima persona: voglio, non voglio, dobbiamo, fermamente voglio, comando fermamente per obbedienza. Come conciliare questa affermazione di sé, con le parole del Testamento che così dicono: «E fermamente voglio obbedire al ministro generale di questa fraternità e ad altro guardiano che gli sarà piaciuto di assegnarmi. E così voglio essere prigioniero nelle sue mani, che io non possa andare o fare oltre l’obbedienza e la volontà sua, perché egli è mio signore» (Test 27-28: FF 124)? Le possibili risposte sono assai complesse e non formulabili in rapida sintesi. Per ora, rimanga alla riflessione personale quanto abbiamo scritto. Non mancheranno occasioni per ritornare sul tema “san Francesco e il potere”.

in Messaggero Cappuccino - Mensile di cultura e formazione cristiana dei Cappuccini dell'Emilia-Romagna Agosto-Settembre 2014

Dell’Autore segnaliamo:
Frate FrancescoIl Mulino, Bologna 2013, pp. 160


domenica 13 luglio 2014

FRANCESCO, UNA TENSIONE NON RISOLTA



   LA REGOLA DEI FRATI MINORI
UNA REGOLA DI VITA IN TENSIONE TRA LA MEMORIA E LA PROFEZIA
Don Felice Acrocca

Francesco: una tensione non risolta

Francesco e i suoi fratelli cercarono di fissare in un proposito di vita la comprensione che via via maturarono della propria scelta di “vivere secondo la forma del santo Vangelo”: il primitivo proposito presentato a Innocenzo III, che Francesco “fece scrivere con poche parole e con semplicità” (Test 15: FF 116), fu progressivamente arricchito nel corso dei Capitoli annuali, durante i quali i frati, “avvalendosi del consiglio di persone esperte, formula[va]no e promulga[va]no le loro leggi sante e confermate dal papa” (1Vitry 11: FF 2208), fino a giungere alla formulazione di quel testo che – senza ottenere mai l’approvazione papale – ci è stato tramandato sotto il nome di Regola non bollata. Nel riprendere il cammino, non venne meno lo stile collegiale, finché la nuova famiglia religiosa (dal 1220, nei documenti papali la religio minoritica viene sempre denominata Ordo) giunse a redigere un testo normativo con valore definitivo: la Lettera ad un ministro è testimonianza evidente di questo percorso comune, che sottoponeva ad un’attenta revisione anche i testi proposti da Francesco stesso. Si trattò, tuttavia, di un percorso difficile: i silenzi reticenti che costellano alcune fonti si rivelano una traccia evidente dell’imbarazzo di alcuni agiografi, così come diversi accenni documentano espressamente di tensioni in atto tra Francesco e i ministri; addirittura, secondo personaggi al di sopra di ogni sospetto, ad un certo punto una bozza del tanto contrastato testo fu fatta sparire (cf. LegM IV, 11: FF 1084).
A dispetto di tali difficoltà, si giunse comunque alla redazione che, confermata da Onorio III il 29 novembre 1223, costituisce ancor oggi il riferimento essenziale di tutta la famiglia minoritica: un testo al quale collaborarono persone diverse, con diversa formazione e sensibilità, che tuttavia porta impressa l’impronta innegabile di Francesco stesso. Un testo ‘chiuso’ che, in qualche misura, enucleava in modo definitivo – istituzionalizzava, si potrebbe dire – il carisma, rendendone permanenti alcune intuizioni e scelte di fondo e mettendo la parola fine a quel processo che fino ad allora aveva progressivamente arricchito ed aggiornato una normativa ‘aperta’ a successivi e ulteriori sviluppi. Rapidi e continui cambiamenti, oltre a tensioni non sopite, spinsero in ogni caso lo stesso Francesco ad intervenire e – siamo ormai negli ultimi giorni della sua vita – a dettare un testo che aveva un preciso obiettivo: quello di spingere i frati ad osservare “più cattolicamente la Regola” promessa al Signore (Test 34: FF 127).
Francesco era ben cosciente che il suo Testamento non aveva la medesima forza giuridica della Regola: proprio per questo, nella prima parte del documento, egli insistette sull’iniziativa divina, che l’aveva guidato per una strada che, almeno in un primo momento, non avrebbe voluto percorrere; e poiché era stato il Signore a rivelargli quella forma di vita che aveva trovato codificazione definitiva nella Regola, essa non poteva essere stravolta. La Regola era autentica e vera perché ispirata da Dio, e confermata, una volta per tutte, dalla Chiesa che l’aveva autenticata.
Lo scritto mostra una tensione irrisolta. Da un lato, Francesco differenzia espressamente il Testamento dalla Regola: i frati non dovevano avanzare illazioni definendo quello scritto un’altra Regola, poiché esso era “un ricordo, un’ammonizione, un’esortazione e il [suo] testamento” (Test 34: FF 127); dall’altro li accomuna, ponendoli sullo stesso piano: “il ministro generale e tutti gli altri ministri e custodi” erano “tenuti, per obbedienza, a non aggiungere e a non togliere niente” dal Testamento, anzi, ad averlo “sempre accanto alla Regola” e a leggerlo in tutti i Capitoli affianco ad essa (Test 35-37: FF 128-129). Volente o nolente, mentre ribadiva con forza alcune modalità dell’esperienza primitiva ritenute ormai a rischio, Francesco finiva quindi per riappropriarsi di uno stile che aveva caratterizzato la sua famiglia religiosa fino al 1223 (una ‘tentazione’ che già si era affacciata nella sua mente: cf. Mem 193: FF 779), introducendo nuove integrazioni, come il divieto – risolutamente fermo – di chiedere “lettera alcuna nella Curia romana” (Test 25: FF 123) e la proibizione – netta anch’essa – di inserire “spiegazioni nella Regola” oltre che nello stesso Testamento (Test 38: FF 130) (cf. Tabarroni, p. 90). Egli considerava dunque chiuso, una volta per sempre, il problema non soltanto dell’autenticità della Regola, ma anche della sua autenticazione e, nello stesso momento, finiva per affiancare alla Regola nuove prescrizioni che non vi erano precedentemente contenute. Le tensioni future scaturiranno dal contrasto interiore in qualche modo presente nello stesso Francesco (non a caso il Testamento avrà un ruolo determinante in molti movimenti di riforma): questo spiega in gran parte la singolarità della storia – e il fascino innegabile – di questo carisma religioso, così come il peso enorme che ha esercitato su di essa la memoria del Fondatore.


I pontefici di fronte alla Regola: da Gregorio IX a Niccolò III

Contrariamente agli intenti di Francesco, la storia premeva però in una direzione diversa. La rapida crescita della nuova famiglia religiosa poneva non pochi problemi ai frati: già tra il 1210 e il 1220 essi avevano dovuto integrare più volte il testo del loro codice di vita; il moltiplicarsi degli insediamenti, anche in forza di nuove campagne missionarie, l’avvicinamento, non solo geografico, al mondo universitario, i campi di azione che la Sede Apostolica assegnava ai Minori (esemplare la lettera di canonizzazione di Francesco, Mira circa nos) rendevano urgente un ‘adattamento’ della Regola a condizioni via via mutevoli, in maniera da consentire ai frati una fedeltà ‘possibile’ alle intenzioni ed al dettato del fondatore.
Le difficoltà sorte e le diversità di opinioni che ne scaturirono, resero necessario un intervento esterno già nel 1230: non sappiamo se la decisione dei capitolari fu unanime, ma certo è che Gregorio IX intervenne su richiesta dei Minori per chiarire “alcune cose dubbie o oscure e altre difficili a capirsi” (Quo elongati: FF 2730), tenuto conto anche del fatto che nel Testamento Francesco aveva vietato espressamente ai suoi di inserire “spiegazioni nella Regola”; secondo le sue parole, il pontefice fu invitato ad agire in forza della conoscenza “più piena” che aveva dell’intentio di Francesco e per aver partecipato egli stesso alla stesura della Regola. La Quo elongati costituì un punto di non ritorno: oltre ad alcune chiarificazioni su punti specifici della Regola bollata, Gregorio IX dichiarò che il Testamento non aveva valore vincolante per i frati (FF 2731) e che gli stessi erano tenuti ad osservare unicamente quei consigli del Vangelo “espressi con parole di comando o di proibizione nella stessa Regola” (FF 2732). Due questioni di perenne attualità nella storia successiva del movimento francescano!
Nei cinquant’anni che seguirono alla morte di Francesco, l’Ordine sembrò orientato a ricercare un’autenticazione della Regola soprattutto in forza di considerazioni interne (Tabarroni, p. 85), vale a dire che ci si sforzò di comprendere la volontà del Fondatore. Contrariamente a Gregorio IX, Innocenzo IV nella Ordinem vestrum (1245), provvedimento che pure sembra sia stato sollecitato dagli stessi frati – è la procedura che fu all’origine del commento alla Regola dei quattro Maestri, nei primi anni ’40, a spingere verso tale conclusione –, non farà alcun accenno all’intentio Francisci, che sarà posta di nuovo in campo solo da Niccolò III (Exiit qui seminat, 1279): non deve quindi sorprendere che la lettera di Innocenzo IV fosse fin da subito recepita con difficoltà dai Minori, tanto che pochi anni dopo la sua emanazione si decise di sospenderne l’applicazione in quei punti in cui il suo dettato si discostava dalla Quo elongati; anche nei commenti successivi, così come nei successivi interventi pontifici, questo pronunciamento innocenziano verrà raramente menzionato.
In un primo momento il ricorso ad un’autenticazione basata su considerazioni esterne, vale a dire sull’approvazione pontificia, fu utilizzato soprattutto ad extra (come appare dall’Expositio super Regulam attribuita a Bonaventura, ma riconducibile ad ambienti influenzati da Giovanni Peckham), soprattutto contro il clero Secolare. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che la disputa con i Secolari mise sovente in pericolo l’esistenza dell’Ordine fino al secondo Concilio di Lione (1274): tale disputa lasciò tracce evidenti nella produzione agiografica e, com’era logico prevedere, favorì anche l’approfondimento teorico dei frati riguardo alla loro Regola. In quegli anni delicati e difficili (1255-1279), i Minori elaborarono progressivamente la dottrina della povertà altissima come garanzia di perfezione e acquisirono coscienza di aver abbracciato uno stato di vita più perfetto degli altri: da una povertà realmente vissuta, che vedeva i Minori desiderosi di porsi ai margini della scala sociale, nello spazio di alcuni decenni si era giunti ad una “povertà pensata” (Lambertini), che consentiva di affermare la superiorità del loro stato di vita rispetto a tutte le altre compagini ecclesiali. La Exiit qui seminat, recependo idee fondamentali del magistero di Bonaventura, veniva di fatto a sancire questo stato di cose, dichiarando che la rinuncia alla proprietà, sia individuale che comune, era meritoria e santa, poiché Cristo l’aveva insegnata e confermata con il suo esempio.


La grande disputa tra Comunità e Spirituali

La vittoria ad extra non segnò tuttavia la fine delle tensioni, poiché crebbe il dibattito ad intra. L’Ordine francescano era ormai il più diffuso della cristianità e la precarietà degli inizi era solo un pallido ricordo: come restare fedeli agli ideali originari in una condizione radicalmente mutata? Dalla fine degli anni ’70 la discussione si era accesa in modo intenso, favorita da alcuni interventi di Pietro di Giovanni Olivi: questi affermava che l’“uso povero” (usus pauper) era parte integrante del voto francescano.
Poiché, soprattutto tra Due e Trecento, il grosso dibattito verteva sulla Regola e sulla sua osservanza, per gli Spirituali divenne esigenza vitale comprendere il significato di quel testo – che era insieme documento legislativo e ragione di vita – e soprattutto l’intentio del Fondatore: così scrisse, nel Prologo del suo commento alla Regola bollata, Pietro di Giovanni Olivi. Se per i rappresentanti della Comunità l’interpretazione autentica della Regola risiedeva nelle dichiarazioni papali, tanto che a Raimondo di Fronsac – che scrisse circa trent’anni dopo la redazione del commento dell’Olivi – appariva “superstizioso” chiunque pretendesse di avere una conoscenza migliore dell’intentio di Francesco di quella ivi esposta (Sol ortus est, in ALKG 3 [1887], p. 9), per gli Spirituali, Ubertino e Clareno in particolare, solo le parole e gli atti dell’Assisiate potevano garantire un’interpretazione sicura degli intenti e delle sue volontà supreme.
            Con l’Olivi il dibattito si mantenne ancora, principalmente, a livello teorico. Alcuni decenni più tardi, quando la contesa finì per vertere del tutto sulla fedeltà vera o presunta dei frati al loro ideale religioso, Ubertino e Clareno dovettero necessariamente operare un confronto continuo tra la vita dell’Ordine che scorreva sotto i loro occhi e l’insegnamento e l’esempio di Francesco. Tale modo di procedere risulta evidente negli scritti polemici redatti da Ubertino durante la disputa svoltasi negli anni del Concilio di Vienne.
Se nella propria risposta al memoriale di Raimondo Gaufridi la Comunità ci tenne a ribadire che la sostanza del voto francescano consisteva nel vivere sine proprio – cioè nella rinuncia ad ogni possesso o dominio, e dunque ancor più meritoria dell’usus pauper –, nei suoi tre successivi interventi Ubertino mirò a dimostrare che proprio nell’usus pauper si attuava la piena rispondenza all’intentio del fondatore. I suoi interventi si concentrarono essenzialmente sull’osservanza della Regola: equiparandola al Vangelo, Francesco stesso l’aveva resa intangibile (idee ribadite nello Specchio di perfezione [ca. 1318] e nel Commento alla Regola del Clareno [1321-1322]); e poiché i frati si obbligavano ad osservare la Regola, ed essa altro non era che il Vangelo di Cristo, essi si impegnavano ad osservare tutto il Vangelo sotto forma di voto, non soltanto i consigli a modo di precetto. Per gli Spirituali italiani, soprattutto, assunse un carattere sacro anche il Testamento, che essi considerarono una cosa sola con la Regola. Separare i due testi, infatti, avrebbe voluto dire non comprenderli poiché – scrisse audacemente il Clareno – la Regola senza il Testamento sarebbe rimasta priva di un elemento essenziale, come la corona di stelle senza il capo della Donna o una buona azione senza intenzione retta, per limitarci solo ad alcuni dei paragoni da lui menzionati nell’Epilogo del Commento alla Regola.


Precetti e consigli: all’origine di una lunga storia

            Negli anni della grande disputa tra Comunità e Spirituali, Clemente V nominò una commissione di esperti, esterni all’Ordine, affinché esaminassero i dossier prodotti dalle due parti in causa. La commissione elencò una serie di prescrizioni che avrebbero dovuto impegnare sub gravi i Minori. Il papa recepì il frutto di quel lavoro e il 6 maggio 1312 pubblicò la lettera Exivi de paradiso, che si proponeva di chiudere la discussione apertasi con la Quo elongati (1230). Secondo papa Gregorio, i frati erano tenuti ad osservare unicamente quei consigli del Vangelo “espressi con parole di comando o di proibizione nella stessa Regola” (FF 2732); per Innocenzo IV, essi erano tenuti a quei consigli “espressi in modo perentorio o obbligante” (preceptorie vel inhibitorie: FF 2739/2), mentre Niccolò III aveva parlato di consigli “espressi in modo perentorio o obbligante oppure con parole equipollenti” (preceptorie vel inhibitorie vel sul verbis aequipollentibus: SLTO, p. 189). Dal proprio canto, Clemente V chiarì che i frati erano tenuti non soltanto all’osservanza dei tre voti, ma anche di tutto ciò che a questi si riferisce e che è esposto nella stessa Regola (non soluta ad tria vota nude et absolute […] sed etiam tenentur ad omnia ea imprenda quae sunt pertinentia ad haec tria, quae regula ipsa ponit: SLTO, p. 234; riepilogo della questione in Bartolomeo, De conformitate IV, p. 383). Clemente V elencava perciò 24 precetti che, fino al XX secolo, sarebbero stati il punto di riferimento obbligato per tutti gli espositori: è facile comprendere come ne sia scaturita una casistica infinita!


Dagli inizi dell’Osservanza alle origine Cappuccine

            Di lì a poco, sotto il pontificato di Giovanni XXII (1316-1334), si sarebbe comunque aperta una crisi senza precedenti: il papa tentò infatti sin da subito di scardinare i postulati teorici della Exiit qui seminat, fino a giungere, dopo un’ampia consultazione promossa in proposito, a dichiarare eretica la tesi che Cristo e gli Apostoli non avessero posseduto nulla (Cum inter nonnullos, 1323); ne scaturì una forte polemica libellistica, nel corso della quale i teologi vicini al Ministro generale, Michele da Cesena, che nel frattempo si erano rifugiati con lui presso la corte di Ludovico il Bavaro, dichiararono eretico il papa a motivo delle tesi che sosteneva.
            La peste nera che nel 1348 decimò la popolazione europea e svuotò anche i conventi, finì tuttavia per disegnare nuovi scenari. Mentre ancora sfavillavano qua e là i roghi accesi per estinguere l’eresia dei Fraticelli, ripresero voce le idealità e le aspirazioni degli Spirituali: nel 1350 Clemente VI concesse infatti a dodici frati di occupare quattro eremi in Umbria (le Carceri-Assisi, Monteluco, l’Eremita di Portaria, Giano) che sottrasse alla giurisdizione dei superiori ed affidò, invece, al guardiano delle Carceri, Gentile da Spoleto, perché vi si potesse osservare la Regola simpliciter, secondo la purezza primitiva (BF VI, p. 246). Pure nella seconda metà del Trecento e per tutto il Quattrocento, si susseguirono i tentativi di riforma che portarono alla progressiva affermazione del moto Osservante, in un primo tempo prevalentemente indirizzato verso una scelta di carattere eremitico, per poi essere sempre più decisamente calato nella società. Movimenti di riforma sorsero non soltanto in Italia e in Francia, dove più lunga e duratura era stata la penetrazione degli Spirituali, ma anche nella penisola iberica, rimasta per gran parte immune da questo influsso e nella quale gli ideali riformatori sfociarono in tre direzioni: in romitori indipendenti (soprattutto nella Provincia di S. Giacomo, la più distante dal resto dell’Europa), nella riforma villacreziana, nell’Osservanza regolare.
            Gli Osservanti conquistarono progressivamente la loro autonomia e con il pontificato di Eugenio IV ottennero una serie impressionante di privilegi; dal proprio canto, i Conventuali tentarono di reagire di fronte a tanto immediato successo e, sotto il pontificato di Sisto IV, furono vicini al ribaltamento della situazione; grazie anche all’appoggio di principi e sovrani, l’Osservanza riuscì tuttavia a mantenere lo status quo e dal quel momento furono i Conventuali a dover organizzare la difesa. Permaneva, in ogni modo, una diffusa insoddisfazione: una lettura attenta della Franceschina mostra che il suo autore, l’Osservante Giacomo Oddi, nutriva una vera nostalgia per quelli che erano stati gli inizi del movimento riformatore, ormai lontani non solo cronologicamente. Come testimoniano molte lettere pontificie, il richiamo insistente all’osservanza integrale della Regola persisteva tenacemente nel comma programmatico dei gruppi di riforma. Gli stessi Osservanti si trovarono costretti a contenere le spinte centrifughe di quanti avrebbero voluto staccarsi dal movimento per mettere in atto i medesimi programmi che pure erano stati alla sua origine, e per i quali i suoi promotori si erano finalmente distinti dalla Comunità dell’Ordine: nella circostanza, la linea di comportamento degli Osservanti non fu troppo diversa da quella tenuta dalla Comunità prima verso gli Spirituali e, in un secondo tempo, nei loro stessi confronti.
            La Ite vos, la cosiddetta “bolla di unione” con la quale Leone X sancì la definitiva divisione dell’Ordine, non pose affatto fine al diffuso stato di insoddisfazione: ancora nel 1526, con il breve Ex parte vestra, il cardinale Lorenzo Pucci concedeva a Matteo da Bascio, Ludovico e Raffaele da Fossombrone di poter condurre vita eremitica e di osservare la Regola per quanto poteva l’umana fragilità (ci troviamo di fronte ad una forte riaffermazione della posizione rigorista); il comma programmatico ritorna di nuovo nella lettera Religionis zelus, di Clemente VII, diretta agli stessi frati, vale a dire nell’atto di nascita della famiglia cappuccina, emanato dal pontefice per tre soli frati (il che rende senz’altro legittimo domandarsi perché agli Spirituali non fu mai possibile ottenere quanto venne poi concesso ad Osservanti e Cappuccini).


La Regola e la sua purezza: la proposta dell’eremo

I primissimi Cappuccini accentuarono il tratto eremitico, soprattutto nel tempo in cui furono sotto la guida di Ludovico da Fossombrone. Dall’eremo era partita anche la proposta severa ed esigente di fra Paoluccio Trinci e per l’eremo, in un primo tempo, aveva optato tutto il movimento Osservante; esso, tuttavia, subì una sterzata significativa tra il 1412 e il 1413, quando Bernardino lasciò l’eremo del Colombaio, presso Siena, e si gettò a capofitto nella predicazione itinerante: tutta l’Italia centro-settentrionale venne percorsa e conquistata dalla personalità affascinante di questo francescano dalla parola infuocata. Una tanto massiccia immissione nel tessuto urbano costrinse – giocoforza – l’Osservanza ad inserirsi sempre più nella vita sociale; in reazione a tale processo, di fronte al grande afflusso di vocazioni che richiedeva l’edificazione di nuovi, grossi conventi cittadini, ritornò allora in auge ancora una volta il prepotente richiamo dell’eremo, di una vita povera fatta di silenzio e di preghiera. Già nel 1460 Giovanni Brugman, in un opuscolo polemico dal titolo quanto mai significativo (Speculum imperfectionis Fratrum Minorum), rimproverò ai suoi confratelli dell’Osservanza di aver abbandonato la vita ritirata, causando così una deplorevole decadenza della loro originaria scelta di vita. Sulla medesima linea, tra il XV e il XVI secolo non pochi movimenti di riforma, soprattutto in Italia e Spagna, propugnarono un ritorno allo spirito primitivo attraverso la via dell’eremo.
            Per venire incontro a queste richieste, fattesi sempre più pressanti, nel 1523 il Ministro generale Francesco Quiñones emanava gli Statuti per le case di recollezione presenti in territorio spagnolo; nella sostanza, gli stessi vennero da lui promulgati anche per l’Italia poco più tardi, nel 1526. Essi divennero il punto di riferimento per tutti gli Statuti posteriori. Il 22 novembre 1679, Innocenzo XI emanò la bolla Militantis Ecclesiae, con la quale approvava gli atti del Capitolo generale degli Osservanti, tenutosi a Roma, presso il convento dell’Aracoeli, nel 1676; nel prologo di queste disposizioni pontificie veniva detto espressamente: “Si ordina che in ogni Provincia di questa Osservanza siano istituiti tre o quattro conventi di recollezione di primo e secondo noviziato, che valgano al tempo stesso come luoghi di spirituale quiete e seminari di perfezione per tutta la Provincia”.
            Non è per orgoglio civico – sono nato e cresciuto nel suo stesso paese – che ora ricordo Tommaso da Cori, quanto perché l’animatore ed il vero fondatore del Ritiro di Civitella (oggi Bellegra) si mostrò in piena consonanza con il francescanesimo primitivo, optando decisamente per una vita mista di contemplazione e di apostolato, con un’impostazione assai differente da quella che fino ad allora aveva prevalso nelle case di recollezione e di ritiro. La sua fu un’intuizione feconda, al punto tale che le ordinazioni che elaborò per il ritiro di Civitella, approvate dal suo Ministro provinciale nel 1706 ed estese a tutti i conventi di ritiro della Provincia Romana, vennero poi applicate a tutto l’Ordine dai Ministri generali Clemente da Palermo e Pasquale da Varese, nel 1759 e nel 1774.


Il prevalere dell’approccio giuridico

Al fine di conservare la propria famiglia religiosa “nella spirituale observanzia della evangelica e serafica Regula”, nelle Costituzioni di Roma - S. Eufemia (1536) i primi Cappuccini decisero di “ordinare alcuni statuti per siepe de la predicta Regula”, per difendersi “da tutte le relaxazione contrarie al ferventissimo e serafico zelo del padre san Francesco” (Prologo, in FC I, pp. 253-255). Coscienti che fosse volontà di Cristo e di Francesco che la Regola si dovesse osservare “simplicimente, ad literam, senza glosa”, per rispettarla “più puramente, santamente e spiritualmente”, essi decisero di rinunciare a “tutte le glose ed exposizione carnale, inutile, noxie et relaxative”, accettandone però come “vivo commento” “le dichiarazione de’ summi pontefici e la santissima vita, doctrina ed exempli del padre san Francesco” (§ 5, in FC I, pp. 261-262); inoltre, decisero di osservare il Testamento di Francesco, giudicandolo “spirituale glosa ed exposizione” della Regola (§ 6, ibidem, p. 263).
            Nonostante tale petizione di principio, l’approccio giuridico (meglio, precettistico) nei riguardi della Regola finì per trionfare dappertutto in epoca moderna, anche in ambito cappuccino. I commenti dei Cappuccini dello scorcio del Cinquecento e dei primi decenni del Seicento costituiscono una prova evidente della vittoria di questa modalità d’approccio nei confronti del codice di vita della famiglia francescana. L’elenco preciso dei precetti che, secondo la Exivi de paradiso, obbligavano sub gravi i frati, costituì – come si è detto – un punto di non ritorno che influenzerà gli espositori futuri; la teologia della vita religiosa impostasi nell’epoca post-tridentina (Suarez) e che presentava la professione religiosa come un contratto, contribuirà in modo non irrilevante ad accrescere il problema dell’obbligatorietà della Regola, fonte perenne di risorgenti inquietudini. I commenti si moltiplicano, diventando di sempre più difficile lettura per tutti coloro che risultano sprovvisti di un’adeguata formazione giuridica.
Si differenzia, in questa selva di commenti, un curioso Trattato sull’amore evangelico, probabilmente attribuibile agli inizi del Cinquecento, scoperto mutilo in un codice assisano che raccoglie altri commenti alla Regola francescana e pubblicato anni or sono da Costanzo Cagnoni nelle Fonti Cappuccine (ma ne ho di recente rinvenuto un secondo codice presso la Biblioteca Vaticana che, per quanto mutilo anch’esso, consente tuttavia di avere una visione più articolata dell’opera): nella spiegazione del testo non vengono utilizzati né gli antichi espositori, né i pronunciamenti papali; la Parola di Dio si rivela come l’unico fondamento per la comprensione della norma di vita dei Minori.
Alcuni autori – è il caso di Ilario da Parigi – che, insoddisfatti di tale stato di cose, tentarono di tornare alla dottrina scolastica, finirono per veder messa all’Indice la loro opera (cf. Etzi, pp. 125-127). Come scriveva Kaietan Esser, “non ci si staccò da questo modello neppure quando le strutture scientifiche e sociali del mondo secolare, come la vita interna e l’opera della Chiesa, erano già cambiate da tempo. Le spiegazioni della Regola ponevano domande di questo genere (e i novizi imparavano a discuterle con tutti i sussidi della casistica): «che cosa significa cavalcare?» anche molto dopo che i Frati minori viaggiavano in ferrovia, in auto e in aereo. Essi sillogizzavano sul divieto della Regola di usare denaro, quando ormai ogni frate dell’Ordine, come i poveri nel mondo, di fatto usava denaro e doveva usarlo” (cit. da Etzi, p. 127). Alcune settimane or sono, il p. Servus Gieben, coetaneo del nostro Thaddée Matura, con il quale discutevo della questione, mi ha confermato che le cose stavano precisamente in quel modo anche in casa cappuccina, ai tempi del suo noviziato: l’interpretazione giuridica della Regola aveva un peso ben maggiore che non l’insegnamento di Francesco, e mentre la seconda Guerra mondiale spazzava via tante certezze, i novizi delle diverse obbedienze continuavano a discettare nei termini descritti da Esser. E ciò malgrado già nel Capitolo del 1915 l’Holzapfel avesse formulato un’espressa richiesta al Ministro generale perché rivolgesse formale supplica alla Sede Apostolica affinché il papa facesse in qualche modo tabula rasa di tutta una documentazione divenuta ormai ingombrante e nociva per il vero progresso della vita religiosa. Si dovette tuttavia attendere il Concilio Vaticano II perché s’avviasse una generale riscoperta del carisma (peraltro, preparata da studiosi che da anni avevano prodotto notevoli studi in tal senso: si veda il lavoro di F. Uribe in Collectanea Franciscana 76 [2006], pp. 119-160), secondo le indicazioni formulate nel Decreto Perfectae Caritatis.


Il cuore della “Regola e vita”

Come appare oggi alla nostra comprensione questo testo vitale? Esso offre indicazioni preziose per uno stile di vita autenticamente fedele allo spirito del Fondatore ed alle sempre mutevoli condizioni dei tempi. Bisogna a questo proposito ribadire, contro una tentazione sottile e strisciante, che la Regola bollata, nonostante diverse mani abbiano collaborato alla sua stesura, riflette il pensiero autentico di Francesco: non condivido dunque l’opinione di quanti – velatamente o meno – tendono a scavare un fossato tra questo testo e la Regola non bollata. La voce diretta dell’Assisiate compare non soltanto nei molti verbi alla prima persona (cf. II, 17; III, 10; IV, 11; IX, 3; X, 3; X, 7; XI, 1; XII, 3), ma anche in altri passi facilmente identificabili: passi che, più di altri, rivelano una sorprendente consonanza non soltanto con analoghi corrispondenti della Regola non bollata, ma anche con ulteriori scritti di Francesco.
La Regola si presenta dunque come la vita (cf. I, 1; II, 1; II, 17) della fraternità (la famiglia viene designata quattro volte con il termine fraternitas, due volte con il termine religio, una volta soltanto con il termine ordo), una vita che si concretizza nel programma di osservare la povertà e l’umiltà e il Vangelo di Gesù Cristo  (cf. I, 1; VI, 2; XII, 4), in comunione con la Chiesa e nell’obbedienza ad essa (cf. I, 1; XII, 4). Centro e cuore di questo codice di vita risulta, a mio avviso, il capitolo VI che, soprattutto nei vv. 4-6, tradisce anche un diverso genere letterario: come il capitolo VI della Regola di Chiara si distingue dal resto per il tono autobiografico, e quindi per un diverso genere letterario, allo stesso modo si differenzia anche questo capitolo della Regola minoritica: ci troviamo, infatti, di fronte ad un’esortazione in forma diretta, rivolta ai frati da Francesco stesso. Il capitolo sintetizza l’essenza di una vita precaria e mendicante, contenta di possedere solo il Signore Gesù Cristo e di seguire le sue orme in povertà e umiltà (vv. 1-3: minorità), il tutto vissuto insieme, in una piena condivisione di vita e d’anima, nel servizio caritativo reciproco (v. 7-9: fraternità): l’esortazione di Francesco (vv. 4-6) collega questi due brani che sintetizzano l’essenza dell’esperienza francescana.
Un’esistenza umile e sottomessa (cf. III, 10-11.13-14), che non può e non vuole giudicare alcuno (cf. II, 17): l’umiltà, infatti, deve contrassegnare lo stile dei Minori (cf. III, 11; V, 4; VI, 1; X, 1; X, 9; XII, 4); nel suo Testamento Francesco preciserà che i frati dovranno adottare uno stile umile anche in ambito pastorale (vv. 6-7: FF 112). Poiché l’umiltà contrassegna la scelta eucaristica di Cristo (cf. Am I, 16-18: FF 144; LOrd 26-29: FF 221), la vita dei frati deve ‘farsi’ eucaristia, deve assumere, cioè, quei caratteri di umiltà e di povertà che contrassegnarono l’esistenza e le scelte del Cristo.


La lezione della storia

L’abbozzo fin qui tracciato ha posto sotto i nostri occhi una storia contrastata, frutto di una “eredità difficile”: una tensione che trova la sua origine nella persona e nell’esperienza di Francesco stesso. Perché la storia diventi veramente magistra vitae, è tuttavia necessario che se ne apprenda la lezione.
Una tensione perenne Cosa ci insegna dunque la storia francescana? Anzitutto che le tensioni sono parte di essa, perché iscritte, potremmo dire, nel suo DNA; tuttavia la storia mostra pure che le tendenze centrifughe vengono contenute da una sana duttilità, capace di accogliere proposte al di fuori di schemi e scelte ormai consolidati, purché non vengano favoriti i battitori solitari ed orientamenti e strategie siano condivise nei luoghi deputati al discernimento comunitario.
Ortodossia e ortoprassi Otto secoli di vita insegnano pure che non basta l’ortodossia per conservare l’unità, quando viene meno l’ortoprassi; esemplare, a riguardo, è l’accoglienza riservata dagli Spirituali alla Exivi de paradiso: la lettera di Clemente V sposava le critiche di Ubertino allo stato di rilassatezza che si era diffuso nell’Ordine, ma smentiva le attese degli Spirituali su alcuni aspetti essenziali; da un punto di vista teorico, dunque, essa fu per loro un fallimento: eppure il Clareno la ritenne la più vicina di tutte all’intenzione del Fondatore (Liber chronicarum VI, 258). Un impegno maggiore nella repressione degli abusi (e giova dire che le accuse ripetute e circostanziate di Ubertino non furono mai smentite dalla Comunità) avrebbe risolto molte cose. Allora come oggi!
Eremo-città Sempre presente nella storia dell’Ordine si è rivelata poi la tensione eremo-città; Francesco ed i suoi compagni optarono per una “alternanza” (Merlo) eremo-città: nello stesso giorno, come poté osservare anche Giacomo da Vitry nel 1216 (cf. FF 2206), i frati agivano nelle città per poi ritirarsi, di notte, in luoghi solitari. Nel giro di pochi anni la vita nell’eremo divenne una possibilità permanente (cf. Rnb XVII, 5: FF 47; Regola di vita negli eremi: FF 136-138) e, con il passare del tempo, finì per divenire un’alternativa al francescanesimo urbano (dall’alternanza si passò dunque all’alternativa): dall’eremo hanno preso avvio riforme che hanno esercitato un peso decisivo nello sviluppo della famiglia francescana. La storia mostra però che le riforme hanno conosciuto una crescita, non solo numerica, quando hanno lasciato l’eremo per dirigersi verso le piazze cittadine: Osservanti e Cappuccini insegnano…
Autocoscienza istituzionale: sacerdoti e non-sacerdoti Povertà è stata la parola-chiave, la miccia che ha causato notevoli e ripetute esplosioni: che si trattasse di una povertà pensata, a difesa della pretesa supremazia spirituale dell’Ordine, o della ricerca di una povertà vissuta, in nome di una fedeltà allo spirito originario dell’Ordine. La tensione tra le due anime del francescanesimo si manifestò ben presto, vivente ancora Francesco, ma non si trattò di una lotta tra rigoristi e rilassati, come volle all’epoca il Clareno e come, in tempi più vicini a noi, ha ritenuto il Sabatier. In realtà, all’inizio le parti in conflitto rivelarono una diversa coscienza della propria vocazione e della missione dell’Ordine: una parte si mostrò tenacemente attaccata alla memoria delle origini propugnando una testimonianza silenziosa, basata su una vita di condivisione con i poveri, sul lavoro manuale e sull’annuncio della penitenza; un’altra parte, invece, si schierò risolutamente a favore di un inserimento della famiglia francescana nell’attività pastorale, a servizio – e a vantaggio – della riforma della Chiesa. La parte laicale dell’Ordine (quale spazio poteva avere un frate laico nell’attività pastorale?), propese quindi per una continuità con il modello delle origini, mentre la parte sacerdotale si rivelò più incline all’opzione pastorale.
Gregorio IX contribuì in modo decisivo alla vittoria del modello pastorale. Ma se un sacerdote celebra messa, confessa, predica, insegna, si inserisce attivamente nella vita politica della città, ben difficilmente lo si troverà in un lebbrosario o in un ospedale a curare gli infermi. Furono allora soprattutto i frati laici, ai quali era impossibile l’accesso a molte attività pastorali, a tener fede (almeno in alcuni casi) alla primitiva memoria dell’Ordine. Tali chiavi di lettura, ovviamente, non vanno assolutizzate: basti pensare all’esperienza di Antonio di Padova, il quale all’intensa attività di predicazione, fece seguire la quiete di Camposampiero, dove visse in condizioni molto simili a quelle raccomandate nella Regola per gli eremi. Allo stesso modo, anche un personaggio come Elia, che non fu sacerdote, ma certo fu uomo di grandi capacità ed energie, dinamico, votato più alla vita attiva ed al governo che non alla solitudine ed alla quiete, trascorse – stando almeno alla testimonianza di Tommaso da Eccleston – un periodo della propria vita in un eremo, tra il 1230 e il 1232 (cf. FF 2502).
La storia successiva ha visto i religiosi, laici e sacerdoti, agire secondo una netta divisione di compiti: non soltanto il lavoro manuale, ma l’evangelizzazione itinerante (uno sguardo anche veloce agli atti dei processi di canonizzazione è sufficiente a convincersene), elemento fondamentale dell’esperienza primitiva, si è mantenuta viva grazie soprattutto ai religiosi non sacerdoti. Si discute molto oggi – almeno in Occidente – sui frati non sacerdoti e sulla natura dell’Ordine: tuttavia, fin quando l’azione liturgico-pastorale continuerà ad assorbire quasi tutte le energie, ogni possibile discorso sarà destinato al fallimento.