Assisi, Capitolo delle Stuoie 2009
(...)
Francesco non ha analizzato i contenuti della sua scelta: quali aspetti
del Vangelo si proponeva, cioè, di rivivere. Seguendo il suo istinto
del “sine glossa”, lo ha preso in blocco, come qualcosa di indivisibile.
Noi però possiamo oggi rilevare alcuni contenuti concreti della sua
scelta, basandoci su quello che lo vediamo mettersi a fare prima e dopo
il viaggio a Roma e l’incontro con il papa. Possiamo parlare delle tre
“P” di Francesco: predicazione, preghiera, povertà.
La prima cosa che Francesco si mette a fare è di andare lui stesso e mandare i suoi compagni in giro per i villaggi e i paesi a predicare la penitenza, esattamente come aveva sentito che faceva Gesù. Gesù intercalava la predicazione con tempi di preghiera: di notte, di giorno, sul fare del mattino, a sera tarda, dalla preghiera partiva e alla preghiera ritornava dopo i suoi viaggi; lo stesso fa ora il piccolo gruppo raccoltosi intorno a Francesco. La preghiera faceva da bordo augusto a tutte le attività del giorno. Tutto questo accompagnato da uno stile di vita povero nel senso più comprensivo della parola, cioè fatto di povertà materiale radicale, ma anche di povertà spirituale, cioè semplicità, umiltà, fuga dagli onori: cose tutte che più tardi Francesco racchiuderà nel nome di “Minori” dato ai suoi frati.
È da rilevare un dato importante: questa primitiva esperienza è interamente laicale. Il grande storico Joseph Lortz ha affermato con forza: “Il centro più intimo della pietà del santo cattolico, Francesco d’Assisi, non è clericale” .
L’intuizione di Francesco trova una singolare conferma nell’orientamento più recente degli studi sul Gesù storico. E’ divenuto abbastanza comune definire il gruppo di Gesù e dei suoi discepoli, dal punto di vista della sociologia religiosa, come “carismatici itineranti”, anche se il modo con cui questa qualifica è intesa da taluni è soggetta a non poche riserve [8]. “Carismatici” indica il carattere profetico della predicazione di Gesù, accompagnata da segni e prodigi; “itineranti” il suo carattere mobile e il rifiuto di stabilirsi in un luogo fisso, confermato dal detto di Cristo: “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo” (Mt 8,20). Non si potrebbe trovare una definizione più adatta di questa per il primitivo gruppo riunito intorno a Francesco: carismatici itineranti. (...)
Parlando alla Casa Pontificia dissi: bisogna ridare all'ufficio della predicazione il suo posto d'onore nella Chiesa; qui aggiungo: bisogna ridare all’ufficio della predicazione il posto d’onore nella famiglia francescana. Mi ha colpito una riflessione del de Lubac: “Il ministero della predicazione non è la volgarizzazione di un insegnamento dottrinale in forma più astratta, che sarebbe ad esso anteriore e superiore. E', al contrario, l'insegnamento dottrinale stesso, nella sua forma più alta” [11]. San Paolo, il modello di tutti i predicatori, certamente metteva la predicazione prima di ogni cosa e tutto subordinava ad essa. Faceva teologia predicando e non una teologia da cui lasciare poi che altri desumessero le cose più elementari da trasmettere ai semplici fedeli nella predicazione.
Noi cattolici siamo più preparati, dal nostro passato, a fare i “pastori” che i “pescatori” di uomini, cioè siamo più preparati a pascere le persone che sono rimaste fedeli alla Chiesa, che non a portare ad essa nuove persone, o a “ripescare” quelle che se ne sono allontanate. La predicazione itinerante scelta per sé da Francesco, risponde proprio a questa esigenza. Sarebbe un peccato se l’esistenza ormai di chiese e grandi strutture proprie facessero anche di noi francescani solo dei pastori e non dei pescatori di uomini. I francescani sono “evangelici” per vocazione originaria, i primi veri “evangelici”; non possono permettere che in certi continenti, come l’America Latina, la predicazione itinerante sia appannaggio delle sole chiese “evangeliche” protestanti.
Anche sul contenuto della nostra predicazione ci sarebbero delle osservazioni importanti da fare. Si sa che la primitiva predicazione francescana era tutta incentrata intorno al tema della “penitenza”, al punto che il primitivo nome che i frati si diedero fu quello di “ penitenti di Assisi”. Per predicazione penitenziale si intendeva allora una predicazione centrata sulla conversione nel senso di cambiamento dei costumi, quindi di carattere morale. Fu il mandato che diede ai frati Innocenzo III: “Andate, predicate a tutti la penitenza”. Nella Regola definitiva questo contenuto morale si specifica: i predicatori devono annunciare ”i vizi e le virtù, la pena e la gloria”.
Questo è un punto in cui un ritorno meccanico all’origine sarebbe fatale. In una società tutta impregnata di cristianesimo, questo delle opere era l’aspetto su cui era più naturale e urgente insistere. Oggi non è più così. Viviamo in una società in molti paesi diventata post-cristiana; la cosa più necessaria è aiutare gli uomini a venire alla fede, scoprire Cristo. Per questo non basta una predicazione morale o moralistica, occorre una predicazione kerigmatica che vada diritto al cuore del messaggio, annunciando il mistero pasquale di Cristo. Fu con questo annuncio che gli apostoli evangelizzarono il mondo pre-cristiano e sarà con esso che possiamo sperare di ri-evangelizzare il mondo post-cristiano.
Francesco, e grazie a lui, in parte anche i suoi primi compagni riuscirono a evitare questo limite moralistico nella loro predicazione. In lui vibra in tutta la sua forza la novità evangelica. Il vangelo è davvero vangelo, cioè lieta notizia; annuncio del dono di Dio all’uomo prima ancora che risposta dell’uomo. Dante ha colto bene questo clima, quando dice di lui e dei suoi primi compagni:
“La lor concordia e i lor lieti sembianti amore e meraviglia e dolce sguardo facieno esser cagion di pensier santi”.
Avevano trovato, dicono le fonti, il tesoro nascosto e la perla preziosa e volevano farla conoscere a tutti L’aria che si respira intorno a Francesco non è quella di certi predicatori francescani posteriori, specie nel periodo della Controriforma, tutta centrata sulle opere dell’uomo, austera e afflittiva, ma di un’austerità più vicina a quella di Giovanni Battista che a quella di Gesù. L’immagine stessa di Francesco viene gravemente alterata in questo clima. Quasi tutti i dipinti di questo periodo lo rappresentano in meditazione con un teschio in mano, lui per il quale la morte era una buona sorella! Continuiamo, dunque pure noi francescani a predicare la conversione, ma diamo a questa parola il senso che le dava Gesù quando diceva: “Convertitevi e credete al vangelo” (Mc 1,15). Prima di lui convertirsi voleva sempre dire cambiare vita e costumi, tornare indietro (è il senso dell’ebraico shub!), all’osservanza della legge e all’alleanza violata. Con Gesù non vuol dire più tornare indietro, ma fare un balzo in avanti e entrare nel regno che è venuto gratuitamente tra gli uomini. “Convertitevi e credete” non vuol dire due cose separate, ma la stessa cosa: convertitevi, cioè credete alla buona notizia! È la grande novità evangelica e Francesco l’ha colta d’istinto, senza attendere l’odierna teologia biblica. (...)
Siamo richiamati a quello che si diceva all’inizio sul carisma francescano: esso non consiste nel guardare a Francesco, ma nel guardare a Cristo con gli occhi di Francesco. C’è una cosa che permane immutata da Francesco a noi, al di sotto di tutti mutamenti storici e sociali: lo Spirito del Signore. Tutta la vita del Poverello, se ci si fa caso, si svolge, sotto la guida dello Spirito Santo. Quasi ogni capitolo della sua vita si apre con l’osservazione. “Francesco, mosso, o ispirato, dallo Spirito Santo, andò, disse, fece…”.
Nella ricorrenza del XVI centenario del concilio ecumenico Costantinopolitano 1- il concilio che definì la divinità dello Spirito Santo -, il papa Giovanni Paolo II scrisse: “Tutta l'opera di rinnovamento della Chiesa, che il concilio Vaticano II ha così provvidenzialmente proposto e iniziato… non può realizzarsi se non nello Spirito Santo, cioè con l'aiuto della sua luce e della sua forza”. Questo vale più che mai per il rinnovamento degli ordini religiosi.
Ci sono due soli tipi di rinnovamento possibili: un rinnovamento secondo la legge e un rinnovamento secondo lo Spirito. Il cristianesimo –Paolo ce lo insegna – è un rinnovamento secondo lo Spirito (Tit 3,5), non secondo la legge. In realtà la legge non è riuscita a rinnovare veramente nessun ordine religioso; mette in luce la trasgressione, ma non da la vita. Essa è utile e preziosa se messa a servizio della “legge dello Spirito che da la vita in Cristo Gesù” (Rom 8,2), non se pretende di sostituirla. Se, come scrive san Tommaso d’Aquino, anche la lettera del Vangelo e i precetti morali contenuti in esso ucciderebbero se non si aggiungesse, dentro, la grazia della fede e la forza dello Spirito Santo”, cosa dobbiamo dire di tutte le altre leggi positive, comprese le regole monastiche?
Dobbiamo domandarci che cosa può significare per noi francescani, accogliere la grazia della “novella Pentecoste” invocata da Giovanni XXIII. La seconda generazione francescana vide se stessa come la realizzazione delle profezie di Gioacchino da Fiore di una nuova era dello Spirito. C’era, evidentemente, dell’ingenuità, se non dell’orgoglio, in questa identificazione, senza contare che la tesi stessa di una terza era dello Spirito Santo – sia o no da attribuirsi in questa forma a Gioacchino - è eretica e inaccettabile. E tuttavia c’è qualcosa che possiamo ritenere da questo capitolo discusso della nostra storia: la convinzione di essere una realtà suscitata dallo Spirito Santo e che è chiamata a tenere viva nel mondo la fiamma della Pentecoste.
Il primo capitolo delle Stuoie si aprì il giorno di Pentecoste del 1221; si aprì dunque con il solenne canto del Veni creator che faceva ormai parte della liturgia di Pentecoste. Quest’inno, composto nel IX secolo ha accompagnato la Chiesa in ogni grande evento svoltosi nel secondo millennio cristiano: ogni concilio ecumenico, sinodo, ogni nuovo anno, o secolo è iniziato con il suo canto; tutti i santi vissuti in questi dieci secoli l’hanno cantato e hanno lasciato nelle parole l’impronta della loro devozione e amore allo Spirito.
Con esso invochiamo anche noi la presenza dello Spirito su questo nuovo Capitolo delle stuoie. Vieni Spirito creatore. Rinnova il prodigio operato all’inizio del mondo. Allora la terra era vuota, deserta e le tenebre ricoprivano la faccia dell’abisso, ma quando tu cominciasti ad aleggiare su di esso, il caos si trasformò in cosmo (cf. Gen 1,1-2), cioè in qualcosa di bello, ordinato, armonioso. Anche noi sperimentiamo il vuoto, l’impotenza a darci una forma e una vita nuova. Aleggia, vieni su di noi; trasforma il nostro caos personale e collettivo in una nuova armonia, in “qualcosa di bello per Dio” e per la Chiesa.
Rinnova anche il prodigio delle ossa aride che riprendono vita, si alzano in piedi e sono un esercito numeroso (cf. Ez 37, 1 ass.). Noi non diciamo più come Ezechiele: “Spirito soffia dai quattro venti”, come se non sapessimo ancora da dove soffia lo Spirito. Nella settimana pasquale diciamo: “Spirito Vieni Spirito dal costato trafitto di Cristo sulla croce! Vieni dalla bocca del Risorto!”.
La prima cosa che Francesco si mette a fare è di andare lui stesso e mandare i suoi compagni in giro per i villaggi e i paesi a predicare la penitenza, esattamente come aveva sentito che faceva Gesù. Gesù intercalava la predicazione con tempi di preghiera: di notte, di giorno, sul fare del mattino, a sera tarda, dalla preghiera partiva e alla preghiera ritornava dopo i suoi viaggi; lo stesso fa ora il piccolo gruppo raccoltosi intorno a Francesco. La preghiera faceva da bordo augusto a tutte le attività del giorno. Tutto questo accompagnato da uno stile di vita povero nel senso più comprensivo della parola, cioè fatto di povertà materiale radicale, ma anche di povertà spirituale, cioè semplicità, umiltà, fuga dagli onori: cose tutte che più tardi Francesco racchiuderà nel nome di “Minori” dato ai suoi frati.
È da rilevare un dato importante: questa primitiva esperienza è interamente laicale. Il grande storico Joseph Lortz ha affermato con forza: “Il centro più intimo della pietà del santo cattolico, Francesco d’Assisi, non è clericale” .
L’intuizione di Francesco trova una singolare conferma nell’orientamento più recente degli studi sul Gesù storico. E’ divenuto abbastanza comune definire il gruppo di Gesù e dei suoi discepoli, dal punto di vista della sociologia religiosa, come “carismatici itineranti”, anche se il modo con cui questa qualifica è intesa da taluni è soggetta a non poche riserve [8]. “Carismatici” indica il carattere profetico della predicazione di Gesù, accompagnata da segni e prodigi; “itineranti” il suo carattere mobile e il rifiuto di stabilirsi in un luogo fisso, confermato dal detto di Cristo: “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo” (Mt 8,20). Non si potrebbe trovare una definizione più adatta di questa per il primitivo gruppo riunito intorno a Francesco: carismatici itineranti. (...)
Una predicazione francescana rinnovata
Come potremmo oggi attuare quei tre aspetti fondamentali della primitiva esperienza francescana che ho evidenziato: predicazione, preghiera e povertà. A proposito del primo, la predicazione, ci si deve porre anzitutto una domanda inquietante: che posto occupa oggi la predicazione nell’ordine francescano? In una mia predica alla Casa Pontificia feci una volta delle riflessioni che credo possono servire anche a noi qui. Nelle chiese protestanti, e specialmente in certe nuove chiese e sètte, la predicazione è tutto. Di conseguenza, è ciò a cui vengono avviati e in cui trovano naturale modo di esprimersi gli elementi più dotati. E' l'attività numero uno nella Chiesa. Chi sono invece quelli che sono riservati alla predicazione tra noi? Dove vanno a finire le forze più vive e più valide della Chiesa? Che cosa rappresenta l'ufficio della predicazione, tra tutte le possibili attività e destinazioni dei giovani preti? A me sembra di scorgere un grave inconveniente: che alla predicazione si dedichino solo gli elementi che rimangono dopo la scelta per gli studi accademici, per il governo, per la diplomazia, per l'insegnamento, per l'amministrazione.Parlando alla Casa Pontificia dissi: bisogna ridare all'ufficio della predicazione il suo posto d'onore nella Chiesa; qui aggiungo: bisogna ridare all’ufficio della predicazione il posto d’onore nella famiglia francescana. Mi ha colpito una riflessione del de Lubac: “Il ministero della predicazione non è la volgarizzazione di un insegnamento dottrinale in forma più astratta, che sarebbe ad esso anteriore e superiore. E', al contrario, l'insegnamento dottrinale stesso, nella sua forma più alta” [11]. San Paolo, il modello di tutti i predicatori, certamente metteva la predicazione prima di ogni cosa e tutto subordinava ad essa. Faceva teologia predicando e non una teologia da cui lasciare poi che altri desumessero le cose più elementari da trasmettere ai semplici fedeli nella predicazione.
Noi cattolici siamo più preparati, dal nostro passato, a fare i “pastori” che i “pescatori” di uomini, cioè siamo più preparati a pascere le persone che sono rimaste fedeli alla Chiesa, che non a portare ad essa nuove persone, o a “ripescare” quelle che se ne sono allontanate. La predicazione itinerante scelta per sé da Francesco, risponde proprio a questa esigenza. Sarebbe un peccato se l’esistenza ormai di chiese e grandi strutture proprie facessero anche di noi francescani solo dei pastori e non dei pescatori di uomini. I francescani sono “evangelici” per vocazione originaria, i primi veri “evangelici”; non possono permettere che in certi continenti, come l’America Latina, la predicazione itinerante sia appannaggio delle sole chiese “evangeliche” protestanti.
Anche sul contenuto della nostra predicazione ci sarebbero delle osservazioni importanti da fare. Si sa che la primitiva predicazione francescana era tutta incentrata intorno al tema della “penitenza”, al punto che il primitivo nome che i frati si diedero fu quello di “ penitenti di Assisi”. Per predicazione penitenziale si intendeva allora una predicazione centrata sulla conversione nel senso di cambiamento dei costumi, quindi di carattere morale. Fu il mandato che diede ai frati Innocenzo III: “Andate, predicate a tutti la penitenza”. Nella Regola definitiva questo contenuto morale si specifica: i predicatori devono annunciare ”i vizi e le virtù, la pena e la gloria”.
Questo è un punto in cui un ritorno meccanico all’origine sarebbe fatale. In una società tutta impregnata di cristianesimo, questo delle opere era l’aspetto su cui era più naturale e urgente insistere. Oggi non è più così. Viviamo in una società in molti paesi diventata post-cristiana; la cosa più necessaria è aiutare gli uomini a venire alla fede, scoprire Cristo. Per questo non basta una predicazione morale o moralistica, occorre una predicazione kerigmatica che vada diritto al cuore del messaggio, annunciando il mistero pasquale di Cristo. Fu con questo annuncio che gli apostoli evangelizzarono il mondo pre-cristiano e sarà con esso che possiamo sperare di ri-evangelizzare il mondo post-cristiano.
Francesco, e grazie a lui, in parte anche i suoi primi compagni riuscirono a evitare questo limite moralistico nella loro predicazione. In lui vibra in tutta la sua forza la novità evangelica. Il vangelo è davvero vangelo, cioè lieta notizia; annuncio del dono di Dio all’uomo prima ancora che risposta dell’uomo. Dante ha colto bene questo clima, quando dice di lui e dei suoi primi compagni:
“La lor concordia e i lor lieti sembianti amore e meraviglia e dolce sguardo facieno esser cagion di pensier santi”.
Avevano trovato, dicono le fonti, il tesoro nascosto e la perla preziosa e volevano farla conoscere a tutti L’aria che si respira intorno a Francesco non è quella di certi predicatori francescani posteriori, specie nel periodo della Controriforma, tutta centrata sulle opere dell’uomo, austera e afflittiva, ma di un’austerità più vicina a quella di Giovanni Battista che a quella di Gesù. L’immagine stessa di Francesco viene gravemente alterata in questo clima. Quasi tutti i dipinti di questo periodo lo rappresentano in meditazione con un teschio in mano, lui per il quale la morte era una buona sorella! Continuiamo, dunque pure noi francescani a predicare la conversione, ma diamo a questa parola il senso che le dava Gesù quando diceva: “Convertitevi e credete al vangelo” (Mc 1,15). Prima di lui convertirsi voleva sempre dire cambiare vita e costumi, tornare indietro (è il senso dell’ebraico shub!), all’osservanza della legge e all’alleanza violata. Con Gesù non vuol dire più tornare indietro, ma fare un balzo in avanti e entrare nel regno che è venuto gratuitamente tra gli uomini. “Convertitevi e credete” non vuol dire due cose separate, ma la stessa cosa: convertitevi, cioè credete alla buona notizia! È la grande novità evangelica e Francesco l’ha colta d’istinto, senza attendere l’odierna teologia biblica. (...)
Una nuova Pentecoste francescana
Come tradurre in atto tutte le proposte evocate e quelle ancora più numerose che certamente emergeranno dagli interventi che seguiranno? La risposta ci viene dalla parola pronunciata da Francesco vicino alla fine della sua vita: “Io ho fatto il mio dovere; quanto spetta a voi, ve lo insegni Cristo!”. Questa parola non era rivolta soltanto ai presenti, ma ai suoi seguaci di tutti i tempi.Siamo richiamati a quello che si diceva all’inizio sul carisma francescano: esso non consiste nel guardare a Francesco, ma nel guardare a Cristo con gli occhi di Francesco. C’è una cosa che permane immutata da Francesco a noi, al di sotto di tutti mutamenti storici e sociali: lo Spirito del Signore. Tutta la vita del Poverello, se ci si fa caso, si svolge, sotto la guida dello Spirito Santo. Quasi ogni capitolo della sua vita si apre con l’osservazione. “Francesco, mosso, o ispirato, dallo Spirito Santo, andò, disse, fece…”.
Nella ricorrenza del XVI centenario del concilio ecumenico Costantinopolitano 1- il concilio che definì la divinità dello Spirito Santo -, il papa Giovanni Paolo II scrisse: “Tutta l'opera di rinnovamento della Chiesa, che il concilio Vaticano II ha così provvidenzialmente proposto e iniziato… non può realizzarsi se non nello Spirito Santo, cioè con l'aiuto della sua luce e della sua forza”. Questo vale più che mai per il rinnovamento degli ordini religiosi.
Ci sono due soli tipi di rinnovamento possibili: un rinnovamento secondo la legge e un rinnovamento secondo lo Spirito. Il cristianesimo –Paolo ce lo insegna – è un rinnovamento secondo lo Spirito (Tit 3,5), non secondo la legge. In realtà la legge non è riuscita a rinnovare veramente nessun ordine religioso; mette in luce la trasgressione, ma non da la vita. Essa è utile e preziosa se messa a servizio della “legge dello Spirito che da la vita in Cristo Gesù” (Rom 8,2), non se pretende di sostituirla. Se, come scrive san Tommaso d’Aquino, anche la lettera del Vangelo e i precetti morali contenuti in esso ucciderebbero se non si aggiungesse, dentro, la grazia della fede e la forza dello Spirito Santo”, cosa dobbiamo dire di tutte le altre leggi positive, comprese le regole monastiche?
Dobbiamo domandarci che cosa può significare per noi francescani, accogliere la grazia della “novella Pentecoste” invocata da Giovanni XXIII. La seconda generazione francescana vide se stessa come la realizzazione delle profezie di Gioacchino da Fiore di una nuova era dello Spirito. C’era, evidentemente, dell’ingenuità, se non dell’orgoglio, in questa identificazione, senza contare che la tesi stessa di una terza era dello Spirito Santo – sia o no da attribuirsi in questa forma a Gioacchino - è eretica e inaccettabile. E tuttavia c’è qualcosa che possiamo ritenere da questo capitolo discusso della nostra storia: la convinzione di essere una realtà suscitata dallo Spirito Santo e che è chiamata a tenere viva nel mondo la fiamma della Pentecoste.
Il primo capitolo delle Stuoie si aprì il giorno di Pentecoste del 1221; si aprì dunque con il solenne canto del Veni creator che faceva ormai parte della liturgia di Pentecoste. Quest’inno, composto nel IX secolo ha accompagnato la Chiesa in ogni grande evento svoltosi nel secondo millennio cristiano: ogni concilio ecumenico, sinodo, ogni nuovo anno, o secolo è iniziato con il suo canto; tutti i santi vissuti in questi dieci secoli l’hanno cantato e hanno lasciato nelle parole l’impronta della loro devozione e amore allo Spirito.
Con esso invochiamo anche noi la presenza dello Spirito su questo nuovo Capitolo delle stuoie. Vieni Spirito creatore. Rinnova il prodigio operato all’inizio del mondo. Allora la terra era vuota, deserta e le tenebre ricoprivano la faccia dell’abisso, ma quando tu cominciasti ad aleggiare su di esso, il caos si trasformò in cosmo (cf. Gen 1,1-2), cioè in qualcosa di bello, ordinato, armonioso. Anche noi sperimentiamo il vuoto, l’impotenza a darci una forma e una vita nuova. Aleggia, vieni su di noi; trasforma il nostro caos personale e collettivo in una nuova armonia, in “qualcosa di bello per Dio” e per la Chiesa.
Rinnova anche il prodigio delle ossa aride che riprendono vita, si alzano in piedi e sono un esercito numeroso (cf. Ez 37, 1 ass.). Noi non diciamo più come Ezechiele: “Spirito soffia dai quattro venti”, come se non sapessimo ancora da dove soffia lo Spirito. Nella settimana pasquale diciamo: “Spirito Vieni Spirito dal costato trafitto di Cristo sulla croce! Vieni dalla bocca del Risorto!”.