LA REGOLA DEI FRATI MINORI
UNA REGOLA DI VITA
IN TENSIONE TRA LA MEMORIA E LA PROFEZIA
Don Felice Acrocca
Francesco: una tensione non
risolta
Francesco e i
suoi fratelli cercarono di fissare in un proposito di vita la comprensione che
via via maturarono della propria scelta di “vivere secondo la forma del santo
Vangelo”: il primitivo proposito presentato a Innocenzo III, che Francesco
“fece scrivere con poche parole e con semplicità” (Test 15: FF 116), fu
progressivamente arricchito nel corso dei Capitoli annuali, durante i quali i
frati, “avvalendosi del consiglio di persone esperte, formula[va]no e
promulga[va]no le loro leggi sante e confermate dal papa” (1Vitry 11: FF
2208), fino a giungere alla formulazione di quel testo che – senza ottenere mai
l’approvazione papale – ci è stato tramandato sotto il nome di Regola non
bollata. Nel riprendere il cammino, non venne meno lo stile collegiale,
finché la nuova famiglia religiosa (dal 1220, nei documenti papali la religio
minoritica viene sempre denominata Ordo) giunse a redigere un testo
normativo con valore definitivo: la Lettera ad un ministro è
testimonianza evidente di questo percorso comune, che sottoponeva ad un’attenta
revisione anche i testi proposti da Francesco stesso. Si trattò, tuttavia, di
un percorso difficile: i silenzi reticenti che costellano alcune fonti si
rivelano una traccia evidente dell’imbarazzo di alcuni agiografi, così come
diversi accenni documentano espressamente di tensioni in atto tra Francesco e i
ministri; addirittura, secondo personaggi al di sopra di ogni sospetto, ad un
certo punto una bozza del tanto contrastato testo fu fatta sparire (cf. LegM
IV, 11: FF 1084).
A dispetto di
tali difficoltà, si giunse comunque alla redazione che, confermata da Onorio
III il 29 novembre 1223, costituisce ancor oggi il riferimento essenziale di
tutta la famiglia minoritica: un testo al quale collaborarono persone diverse,
con diversa formazione e sensibilità, che tuttavia porta impressa l’impronta
innegabile di Francesco stesso. Un testo ‘chiuso’ che, in qualche misura,
enucleava in modo definitivo – istituzionalizzava, si potrebbe dire – il
carisma, rendendone permanenti alcune intuizioni e scelte di fondo e mettendo
la parola fine a quel processo che fino ad allora aveva progressivamente arricchito
ed aggiornato una normativa ‘aperta’ a successivi e ulteriori sviluppi. Rapidi
e continui cambiamenti, oltre a tensioni non sopite, spinsero in ogni caso lo
stesso Francesco ad intervenire e – siamo ormai negli ultimi giorni della sua
vita – a dettare un testo che aveva un preciso obiettivo: quello di spingere i
frati ad osservare “più cattolicamente la Regola” promessa al Signore (Test
34: FF 127).
Francesco era
ben cosciente che il suo Testamento non aveva la medesima forza
giuridica della Regola: proprio per questo, nella prima parte del documento,
egli insistette sull’iniziativa divina, che l’aveva guidato per una strada che,
almeno in un primo momento, non avrebbe voluto percorrere; e poiché era stato
il Signore a rivelargli quella forma di vita che aveva trovato codificazione
definitiva nella Regola, essa non poteva essere stravolta. La Regola era autentica
e vera perché ispirata da Dio, e confermata, una volta per tutte, dalla Chiesa
che l’aveva autenticata.
Lo scritto
mostra una tensione irrisolta. Da un lato, Francesco differenzia espressamente
il Testamento dalla Regola: i frati non dovevano avanzare
illazioni definendo quello scritto un’altra Regola, poiché esso era “un
ricordo, un’ammonizione, un’esortazione e il [suo] testamento” (Test 34:
FF 127); dall’altro li accomuna, ponendoli sullo stesso piano: “il ministro
generale e tutti gli altri ministri e custodi” erano “tenuti, per obbedienza, a
non aggiungere e a non togliere niente” dal Testamento, anzi, ad averlo
“sempre accanto alla Regola” e a leggerlo in tutti i Capitoli affianco ad essa
(Test 35-37: FF 128-129). Volente o nolente, mentre ribadiva con forza
alcune modalità dell’esperienza primitiva ritenute ormai a rischio, Francesco
finiva quindi per riappropriarsi di uno stile che aveva caratterizzato la sua
famiglia religiosa fino al 1223 (una ‘tentazione’ che già si era affacciata
nella sua mente: cf. Mem 193: FF 779), introducendo nuove integrazioni,
come il divieto – risolutamente fermo – di chiedere “lettera alcuna nella Curia
romana” (Test 25: FF 123) e la proibizione – netta anch’essa – di
inserire “spiegazioni nella Regola” oltre che nello stesso Testamento (Test
38: FF 130) (cf. Tabarroni, p.
90). Egli considerava dunque chiuso, una volta per sempre, il problema non
soltanto dell’autenticità della Regola, ma anche della sua autenticazione e,
nello stesso momento, finiva per affiancare alla Regola nuove prescrizioni che
non vi erano precedentemente contenute. Le tensioni future scaturiranno dal
contrasto interiore in qualche modo presente nello stesso Francesco (non a caso
il Testamento avrà un ruolo determinante in molti movimenti di riforma):
questo spiega in gran parte la singolarità della storia – e il fascino
innegabile – di questo carisma religioso, così come il peso enorme che ha
esercitato su di essa la memoria del Fondatore.
I pontefici di fronte alla
Regola: da Gregorio IX a Niccolò III
Contrariamente
agli intenti di Francesco, la storia premeva però in una direzione diversa. La
rapida crescita della nuova famiglia religiosa poneva non pochi problemi ai
frati: già tra il 1210 e il 1220 essi avevano dovuto integrare più volte il
testo del loro codice di vita; il moltiplicarsi degli insediamenti, anche in
forza di nuove campagne missionarie, l’avvicinamento, non solo geografico, al
mondo universitario, i campi di azione che la Sede Apostolica assegnava ai
Minori (esemplare la lettera di canonizzazione di Francesco, Mira circa nos)
rendevano urgente un ‘adattamento’ della Regola a condizioni via via mutevoli,
in maniera da consentire ai frati una fedeltà ‘possibile’ alle intenzioni ed al
dettato del fondatore.
Le difficoltà
sorte e le diversità di opinioni che ne scaturirono, resero necessario un
intervento esterno già nel 1230: non sappiamo se la decisione dei capitolari fu
unanime, ma certo è che Gregorio IX intervenne su richiesta dei Minori per
chiarire “alcune cose dubbie o oscure e altre difficili a capirsi” (Quo
elongati: FF 2730), tenuto conto anche del fatto che nel Testamento
Francesco aveva vietato espressamente ai suoi di inserire “spiegazioni nella
Regola”; secondo le sue parole, il pontefice fu invitato ad agire in forza
della conoscenza “più piena” che aveva dell’intentio di Francesco e per
aver partecipato egli stesso alla stesura della Regola. La Quo elongati
costituì un punto di non ritorno: oltre ad alcune chiarificazioni su punti
specifici della Regola bollata, Gregorio IX dichiarò che il Testamento
non aveva valore vincolante per i frati (FF 2731) e che gli stessi erano tenuti
ad osservare unicamente quei consigli del Vangelo “espressi con parole di
comando o di proibizione nella stessa Regola” (FF 2732). Due questioni di
perenne attualità nella storia successiva del movimento francescano!
Nei
cinquant’anni che seguirono alla morte di Francesco, l’Ordine sembrò orientato
a ricercare un’autenticazione della Regola soprattutto in forza di
considerazioni interne (Tabarroni,
p. 85), vale a dire che ci si sforzò di comprendere la volontà del Fondatore.
Contrariamente a Gregorio IX, Innocenzo IV nella Ordinem vestrum (1245),
provvedimento che pure sembra sia stato sollecitato dagli stessi frati – è la
procedura che fu all’origine del commento alla Regola dei quattro Maestri,
nei primi anni ’40, a spingere verso tale conclusione –, non farà alcun accenno
all’intentio Francisci, che sarà posta di nuovo in campo solo da Niccolò
III (Exiit qui seminat, 1279): non deve quindi sorprendere che la
lettera di Innocenzo IV fosse fin da subito recepita con difficoltà dai Minori,
tanto che pochi anni dopo la sua emanazione si decise di sospenderne
l’applicazione in quei punti in cui il suo dettato si discostava dalla Quo
elongati; anche nei commenti successivi, così come nei successivi
interventi pontifici, questo pronunciamento innocenziano verrà raramente
menzionato.
In un primo momento
il ricorso ad un’autenticazione basata su considerazioni esterne, vale a dire
sull’approvazione pontificia, fu utilizzato soprattutto ad extra (come
appare dall’Expositio super Regulam attribuita a Bonaventura, ma
riconducibile ad ambienti influenzati da Giovanni Peckham), soprattutto contro
il clero Secolare. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che la disputa con i
Secolari mise sovente in pericolo l’esistenza dell’Ordine fino al secondo
Concilio di Lione (1274): tale disputa lasciò tracce evidenti nella produzione
agiografica e, com’era logico prevedere, favorì anche l’approfondimento teorico
dei frati riguardo alla loro Regola. In quegli anni delicati e difficili
(1255-1279), i Minori elaborarono progressivamente la dottrina della povertà
altissima come garanzia di perfezione e acquisirono coscienza di aver
abbracciato uno stato di vita più perfetto degli altri: da una povertà
realmente vissuta, che vedeva i Minori desiderosi di porsi ai margini della
scala sociale, nello spazio di alcuni decenni si era giunti ad una “povertà
pensata” (Lambertini), che consentiva di affermare la superiorità del loro
stato di vita rispetto a tutte le altre compagini ecclesiali. La Exiit qui
seminat, recependo idee fondamentali del magistero di Bonaventura, veniva
di fatto a sancire questo stato di cose, dichiarando che la rinuncia alla
proprietà, sia individuale che comune, era meritoria e santa, poiché Cristo
l’aveva insegnata e confermata con il suo esempio.
La grande disputa tra Comunità
e Spirituali
La vittoria ad
extra non segnò tuttavia la fine delle tensioni, poiché crebbe il dibattito
ad intra. L’Ordine francescano era ormai il più diffuso della
cristianità e la precarietà degli inizi era solo un pallido ricordo: come
restare fedeli agli ideali originari in una condizione radicalmente mutata?
Dalla fine degli anni ’70 la discussione si era accesa in modo intenso,
favorita da alcuni interventi di Pietro di Giovanni Olivi: questi affermava che
l’“uso povero” (usus pauper) era parte integrante del voto francescano.
Poiché,
soprattutto tra Due e Trecento, il grosso dibattito verteva sulla Regola e
sulla sua osservanza, per gli Spirituali divenne esigenza vitale comprendere il
significato di quel testo – che era insieme documento legislativo e ragione di
vita – e soprattutto l’intentio del Fondatore: così scrisse, nel Prologo
del suo commento alla Regola bollata, Pietro di Giovanni Olivi. Se per i
rappresentanti della Comunità l’interpretazione autentica della Regola
risiedeva nelle dichiarazioni papali, tanto che a Raimondo di Fronsac – che
scrisse circa trent’anni dopo la redazione del commento dell’Olivi – appariva
“superstizioso” chiunque pretendesse di avere una conoscenza migliore dell’intentio
di Francesco di quella ivi esposta (Sol ortus est, in ALKG 3 [1887], p.
9), per gli Spirituali, Ubertino e Clareno in particolare, solo le parole e gli
atti dell’Assisiate potevano garantire un’interpretazione sicura degli intenti
e delle sue volontà supreme.
Con
l’Olivi il dibattito si mantenne ancora, principalmente, a livello teorico.
Alcuni decenni più tardi, quando la contesa finì per vertere del tutto sulla
fedeltà vera o presunta dei frati al loro ideale religioso, Ubertino e Clareno
dovettero necessariamente operare un confronto continuo tra la vita dell’Ordine
che scorreva sotto i loro occhi e l’insegnamento e l’esempio di Francesco. Tale
modo di procedere risulta evidente negli scritti polemici redatti da Ubertino
durante la disputa svoltasi negli anni del Concilio di Vienne.
Se nella
propria risposta al memoriale di Raimondo Gaufridi la Comunità ci tenne
a ribadire che la sostanza del voto francescano consisteva nel vivere sine
proprio – cioè nella rinuncia ad ogni possesso o dominio, e dunque ancor
più meritoria dell’usus pauper –, nei suoi tre successivi interventi
Ubertino mirò a dimostrare che proprio nell’usus pauper si attuava la
piena rispondenza all’intentio del fondatore. I suoi interventi si
concentrarono essenzialmente sull’osservanza della Regola: equiparandola al
Vangelo, Francesco stesso l’aveva resa intangibile (idee ribadite nello Specchio
di perfezione [ca. 1318] e nel Commento alla Regola del Clareno
[1321-1322]); e poiché i frati si obbligavano ad osservare la Regola, ed essa
altro non era che il Vangelo di Cristo, essi si impegnavano ad osservare tutto
il Vangelo sotto forma di voto, non soltanto i consigli a modo di precetto. Per
gli Spirituali italiani, soprattutto, assunse un carattere sacro anche il Testamento,
che essi considerarono una cosa sola con la Regola. Separare i due testi,
infatti, avrebbe voluto dire non comprenderli poiché – scrisse audacemente il
Clareno – la Regola senza il Testamento sarebbe rimasta priva di un
elemento essenziale, come la corona di stelle senza il capo della Donna o una
buona azione senza intenzione retta, per limitarci solo ad alcuni dei paragoni
da lui menzionati nell’Epilogo del Commento alla Regola.
Precetti e consigli:
all’origine di una lunga storia
Negli
anni della grande disputa tra Comunità e Spirituali, Clemente V nominò una
commissione di esperti, esterni all’Ordine, affinché esaminassero i dossier
prodotti dalle due parti in causa. La commissione elencò una serie di
prescrizioni che avrebbero dovuto impegnare sub gravi i Minori. Il papa
recepì il frutto di quel lavoro e il 6 maggio 1312 pubblicò la lettera Exivi
de paradiso, che si proponeva di chiudere la discussione apertasi con la Quo
elongati (1230). Secondo papa Gregorio, i frati erano tenuti ad osservare
unicamente quei consigli del Vangelo “espressi con parole di comando o di
proibizione nella stessa Regola” (FF 2732); per Innocenzo IV, essi erano tenuti
a quei consigli “espressi in modo perentorio o obbligante” (preceptorie vel
inhibitorie: FF 2739/2), mentre Niccolò III aveva parlato di consigli
“espressi in modo perentorio o obbligante oppure con parole equipollenti” (preceptorie
vel inhibitorie vel sul verbis aequipollentibus: SLTO, p. 189). Dal proprio
canto, Clemente V chiarì che i frati erano tenuti non soltanto all’osservanza
dei tre voti, ma anche di tutto ciò che a questi si riferisce e che è esposto
nella stessa Regola (non soluta ad tria vota nude et absolute […] sed etiam
tenentur ad omnia ea imprenda quae sunt pertinentia ad haec tria, quae regula
ipsa ponit: SLTO, p. 234; riepilogo della questione in Bartolomeo, De
conformitate IV, p. 383). Clemente V elencava perciò 24 precetti che, fino
al XX secolo, sarebbero stati il punto di riferimento obbligato per tutti gli
espositori: è facile comprendere come ne sia scaturita una casistica infinita!
Dagli inizi dell’Osservanza
alle origine Cappuccine
Di
lì a poco, sotto il pontificato di Giovanni XXII (1316-1334), si sarebbe
comunque aperta una crisi senza precedenti: il papa tentò infatti sin da subito
di scardinare i postulati teorici della Exiit qui seminat, fino a
giungere, dopo un’ampia consultazione promossa in proposito, a dichiarare
eretica la tesi che Cristo e gli Apostoli non avessero posseduto nulla (Cum
inter nonnullos, 1323); ne scaturì una forte polemica libellistica, nel
corso della quale i teologi vicini al Ministro generale, Michele da Cesena, che
nel frattempo si erano rifugiati con lui presso la corte di Ludovico il Bavaro,
dichiararono eretico il papa a motivo delle tesi che sosteneva.
La
peste nera che nel 1348 decimò la popolazione europea e svuotò anche i
conventi, finì tuttavia per disegnare nuovi scenari. Mentre ancora sfavillavano
qua e là i roghi accesi per estinguere l’eresia dei Fraticelli, ripresero voce
le idealità e le aspirazioni degli Spirituali: nel 1350 Clemente VI concesse
infatti a dodici frati di occupare quattro eremi in Umbria (le Carceri-Assisi,
Monteluco, l’Eremita di Portaria, Giano) che sottrasse alla giurisdizione dei
superiori ed affidò, invece, al guardiano delle Carceri, Gentile da Spoleto,
perché vi si potesse osservare la Regola simpliciter, secondo la purezza
primitiva (BF VI, p. 246). Pure nella seconda metà del Trecento e per tutto il
Quattrocento, si susseguirono i tentativi di riforma che portarono alla
progressiva affermazione del moto Osservante, in un primo tempo prevalentemente
indirizzato verso una scelta di carattere eremitico, per poi essere sempre più
decisamente calato nella società. Movimenti di riforma sorsero non soltanto in
Italia e in Francia, dove più lunga e duratura era stata la penetrazione degli
Spirituali, ma anche nella penisola iberica, rimasta per gran parte immune da
questo influsso e nella quale gli ideali riformatori sfociarono in tre
direzioni: in romitori indipendenti (soprattutto nella Provincia di S. Giacomo,
la più distante dal resto dell’Europa), nella riforma villacreziana,
nell’Osservanza regolare.
Gli
Osservanti conquistarono progressivamente la loro autonomia e con il
pontificato di Eugenio IV ottennero una serie impressionante di privilegi; dal
proprio canto, i Conventuali tentarono di reagire di fronte a tanto immediato
successo e, sotto il pontificato di Sisto IV, furono vicini al ribaltamento
della situazione; grazie anche all’appoggio di principi e sovrani, l’Osservanza
riuscì tuttavia a mantenere lo status quo e dal quel momento furono i
Conventuali a dover organizzare la difesa. Permaneva, in ogni modo, una diffusa
insoddisfazione: una lettura attenta della Franceschina mostra che il
suo autore, l’Osservante Giacomo Oddi, nutriva una vera nostalgia per quelli
che erano stati gli inizi del movimento riformatore, ormai lontani non solo
cronologicamente. Come testimoniano molte lettere pontificie, il richiamo
insistente all’osservanza integrale della Regola persisteva tenacemente nel
comma programmatico dei gruppi di riforma. Gli stessi Osservanti si trovarono
costretti a contenere le spinte centrifughe di quanti avrebbero voluto
staccarsi dal movimento per mettere in atto i medesimi programmi che pure erano
stati alla sua origine, e per i quali i suoi promotori si erano finalmente
distinti dalla Comunità dell’Ordine: nella circostanza, la linea di
comportamento degli Osservanti non fu troppo diversa da quella tenuta dalla
Comunità prima verso gli Spirituali e, in un secondo tempo, nei loro stessi
confronti.
La
Ite vos, la cosiddetta “bolla di unione” con la quale Leone X sancì la
definitiva divisione dell’Ordine, non pose affatto fine al diffuso stato di
insoddisfazione: ancora nel 1526, con il breve Ex parte vestra, il
cardinale Lorenzo Pucci concedeva a Matteo da Bascio, Ludovico e Raffaele da
Fossombrone di poter condurre vita eremitica e di osservare la Regola per
quanto poteva l’umana fragilità (ci troviamo di fronte ad una forte
riaffermazione della posizione rigorista); il comma programmatico ritorna di
nuovo nella lettera Religionis zelus, di Clemente VII, diretta agli
stessi frati, vale a dire nell’atto di nascita della famiglia cappuccina,
emanato dal pontefice per tre soli frati (il che rende senz’altro legittimo
domandarsi perché agli Spirituali non fu mai possibile ottenere quanto venne poi
concesso ad Osservanti e Cappuccini).
La Regola e la sua purezza: la
proposta dell’eremo
I primissimi
Cappuccini accentuarono il tratto eremitico, soprattutto nel tempo in cui
furono sotto la guida di Ludovico da Fossombrone. Dall’eremo era partita anche
la proposta severa ed esigente di fra Paoluccio Trinci e per l’eremo, in un
primo tempo, aveva optato tutto il movimento Osservante; esso, tuttavia, subì
una sterzata significativa tra il 1412 e il 1413, quando Bernardino lasciò
l’eremo del Colombaio, presso Siena, e si gettò a capofitto nella predicazione
itinerante: tutta l’Italia centro-settentrionale venne percorsa e conquistata
dalla personalità affascinante di questo francescano dalla parola infuocata.
Una tanto massiccia immissione nel tessuto urbano costrinse – giocoforza –
l’Osservanza ad inserirsi sempre più nella vita sociale; in reazione a tale
processo, di fronte al grande afflusso di vocazioni che richiedeva
l’edificazione di nuovi, grossi conventi cittadini, ritornò allora in auge
ancora una volta il prepotente richiamo dell’eremo, di una vita povera fatta di
silenzio e di preghiera. Già nel 1460 Giovanni Brugman, in un opuscolo polemico
dal titolo quanto mai significativo (Speculum imperfectionis Fratrum Minorum),
rimproverò ai suoi confratelli dell’Osservanza di aver abbandonato la vita
ritirata, causando così una deplorevole decadenza della loro originaria scelta
di vita. Sulla medesima linea, tra il XV e il XVI secolo non pochi movimenti di
riforma, soprattutto in Italia e Spagna, propugnarono un ritorno allo spirito
primitivo attraverso la via dell’eremo.
Per
venire incontro a queste richieste, fattesi sempre più pressanti, nel 1523 il
Ministro generale Francesco Quiñones emanava gli Statuti per le case di
recollezione presenti in territorio spagnolo; nella sostanza, gli stessi
vennero da lui promulgati anche per l’Italia poco più tardi, nel 1526. Essi
divennero il punto di riferimento per tutti gli Statuti posteriori. Il 22
novembre 1679, Innocenzo XI emanò la bolla Militantis Ecclesiae, con la
quale approvava gli atti del Capitolo generale degli Osservanti, tenutosi a
Roma, presso il convento dell’Aracoeli, nel 1676; nel prologo di queste
disposizioni pontificie veniva detto espressamente: “Si ordina che in ogni
Provincia di questa Osservanza siano istituiti tre o quattro conventi di
recollezione di primo e secondo noviziato, che valgano al tempo stesso come
luoghi di spirituale quiete e seminari di perfezione per tutta la Provincia”.
Non è per
orgoglio civico – sono nato e cresciuto nel suo stesso paese – che ora ricordo
Tommaso da Cori, quanto perché l’animatore ed il vero fondatore del Ritiro di
Civitella (oggi Bellegra) si mostrò in piena consonanza con il francescanesimo
primitivo, optando decisamente per una vita mista di contemplazione e di
apostolato, con un’impostazione assai differente da quella che fino ad allora
aveva prevalso nelle case di recollezione e di ritiro. La sua fu un’intuizione
feconda, al punto tale che le ordinazioni che elaborò per il ritiro di
Civitella, approvate dal suo Ministro provinciale nel 1706 ed estese a tutti i
conventi di ritiro della Provincia Romana, vennero poi applicate a tutto
l’Ordine dai Ministri generali Clemente da Palermo e Pasquale da Varese, nel
1759 e nel 1774.
Il prevalere dell’approccio
giuridico
Al fine di
conservare la propria famiglia religiosa “nella spirituale observanzia della
evangelica e serafica Regula”, nelle Costituzioni di Roma - S. Eufemia (1536) i
primi Cappuccini decisero di “ordinare alcuni statuti per siepe de la predicta
Regula”, per difendersi “da tutte le relaxazione contrarie al ferventissimo e
serafico zelo del padre san Francesco” (Prologo, in FC I, pp. 253-255).
Coscienti che fosse volontà di Cristo e di Francesco che la Regola si dovesse
osservare “simplicimente, ad literam, senza glosa”, per rispettarla “più
puramente, santamente e spiritualmente”, essi decisero di rinunciare a “tutte
le glose ed exposizione carnale, inutile, noxie et relaxative”, accettandone
però come “vivo commento” “le dichiarazione de’ summi pontefici e la santissima
vita, doctrina ed exempli del padre san Francesco” (§ 5, in FC I, pp. 261-262);
inoltre, decisero di osservare il Testamento di Francesco, giudicandolo
“spirituale glosa ed exposizione” della Regola (§ 6, ibidem, p. 263).
Nonostante
tale petizione di principio, l’approccio giuridico (meglio,
precettistico) nei riguardi della Regola finì per trionfare dappertutto in
epoca moderna, anche in ambito cappuccino. I commenti dei Cappuccini dello
scorcio del Cinquecento e dei primi decenni del Seicento costituiscono una
prova evidente della vittoria di questa modalità d’approccio nei confronti del
codice di vita della famiglia francescana. L’elenco preciso dei precetti che,
secondo la Exivi de paradiso, obbligavano sub gravi i frati, costituì
– come si è detto – un punto di non ritorno che influenzerà gli espositori
futuri; la teologia della vita religiosa impostasi nell’epoca post-tridentina
(Suarez) e che presentava la professione religiosa come un contratto,
contribuirà in modo non irrilevante ad accrescere il problema
dell’obbligatorietà della Regola, fonte perenne di risorgenti inquietudini. I
commenti si moltiplicano, diventando di sempre più difficile lettura per tutti
coloro che risultano sprovvisti di un’adeguata formazione giuridica.
Si
differenzia, in questa selva di commenti, un curioso Trattato sull’amore
evangelico, probabilmente attribuibile agli inizi del Cinquecento, scoperto
mutilo in un codice assisano che raccoglie altri commenti alla Regola
francescana e pubblicato anni or sono da Costanzo Cagnoni nelle Fonti
Cappuccine (ma ne ho di recente rinvenuto un secondo codice presso la
Biblioteca Vaticana che, per quanto mutilo anch’esso, consente tuttavia di
avere una visione più articolata dell’opera): nella spiegazione del testo non
vengono utilizzati né gli antichi espositori, né i pronunciamenti papali; la
Parola di Dio si rivela come l’unico fondamento per la comprensione della norma
di vita dei Minori.
Alcuni autori
– è il caso di Ilario da Parigi – che, insoddisfatti di tale stato di cose,
tentarono di tornare alla dottrina scolastica, finirono per veder messa all’Indice
la loro opera (cf. Etzi, pp.
125-127). Come scriveva Kaietan Esser, “non ci si staccò da questo modello
neppure quando le strutture scientifiche e sociali del mondo secolare, come la
vita interna e l’opera della Chiesa, erano già cambiate da tempo. Le
spiegazioni della Regola ponevano domande di questo genere (e i novizi
imparavano a discuterle con tutti i sussidi della casistica): «che cosa
significa cavalcare?» anche molto dopo che i Frati minori viaggiavano in
ferrovia, in auto e in aereo. Essi sillogizzavano sul divieto della Regola di
usare denaro, quando ormai ogni frate dell’Ordine, come i poveri nel mondo, di
fatto usava denaro e doveva usarlo” (cit. da Etzi,
p. 127). Alcune settimane or sono, il p. Servus Gieben, coetaneo del nostro
Thaddée Matura, con il quale discutevo della questione, mi ha confermato che le
cose stavano precisamente in quel modo anche in casa cappuccina, ai tempi del
suo noviziato: l’interpretazione giuridica della Regola aveva un peso ben
maggiore che non l’insegnamento di Francesco, e mentre la seconda Guerra
mondiale spazzava via tante certezze, i novizi delle diverse obbedienze
continuavano a discettare nei termini descritti da Esser. E ciò malgrado già
nel Capitolo del 1915 l’Holzapfel avesse formulato un’espressa richiesta al
Ministro generale perché rivolgesse formale supplica alla Sede Apostolica
affinché il papa facesse in qualche modo tabula rasa di tutta una
documentazione divenuta ormai ingombrante e nociva per il vero progresso della
vita religiosa. Si dovette tuttavia attendere il Concilio Vaticano II perché
s’avviasse una generale riscoperta del carisma (peraltro, preparata da studiosi
che da anni avevano prodotto notevoli studi in tal senso: si veda il lavoro di
F. Uribe in Collectanea
Franciscana 76 [2006], pp. 119-160), secondo le indicazioni formulate nel
Decreto Perfectae Caritatis.
Il cuore della “Regola e vita”
Come appare
oggi alla nostra comprensione questo testo vitale? Esso offre indicazioni
preziose per uno stile di vita autenticamente fedele allo spirito del Fondatore
ed alle sempre mutevoli condizioni dei tempi. Bisogna a questo proposito
ribadire, contro una tentazione sottile e strisciante, che la Regola bollata,
nonostante diverse mani abbiano collaborato alla sua stesura, riflette il
pensiero autentico di Francesco: non condivido dunque l’opinione di quanti –
velatamente o meno – tendono a scavare un fossato tra questo testo e la Regola
non bollata. La voce diretta dell’Assisiate compare non soltanto nei molti
verbi alla prima persona (cf. II, 17; III, 10; IV, 11; IX, 3; X, 3; X, 7; XI,
1; XII, 3), ma anche in altri passi facilmente identificabili: passi che, più
di altri, rivelano una sorprendente consonanza non soltanto con analoghi
corrispondenti della Regola non bollata, ma anche con ulteriori scritti
di Francesco.
La Regola si
presenta dunque come la vita (cf. I, 1; II, 1; II, 17) della fraternità
(la famiglia viene designata quattro volte con il termine fraternitas,
due volte con il termine religio, una volta soltanto con il termine ordo),
una vita che si concretizza nel programma di osservare la povertà e l’umiltà
e il Vangelo di Gesù Cristo (cf. I,
1; VI, 2; XII, 4), in comunione con la Chiesa e nell’obbedienza ad essa (cf. I,
1; XII, 4). Centro e cuore di questo codice di vita risulta, a mio avviso, il
capitolo VI che, soprattutto nei vv. 4-6, tradisce anche un diverso genere
letterario: come il capitolo VI della Regola di Chiara si distingue dal resto
per il tono autobiografico, e quindi per un diverso genere letterario, allo
stesso modo si differenzia anche questo capitolo della Regola minoritica: ci
troviamo, infatti, di fronte ad un’esortazione in forma diretta, rivolta ai
frati da Francesco stesso. Il capitolo sintetizza l’essenza di una vita
precaria e mendicante, contenta di possedere solo il Signore Gesù Cristo e di
seguire le sue orme in povertà e umiltà (vv. 1-3: minorità), il
tutto vissuto insieme, in una piena condivisione di vita e d’anima, nel
servizio caritativo reciproco (v. 7-9: fraternità): l’esortazione
di Francesco (vv. 4-6) collega questi due brani che sintetizzano l’essenza
dell’esperienza francescana.
Un’esistenza
umile e sottomessa (cf. III, 10-11.13-14), che non può e non vuole giudicare
alcuno (cf. II, 17): l’umiltà, infatti, deve contrassegnare lo stile dei Minori
(cf. III, 11; V, 4; VI, 1; X, 1; X, 9; XII, 4); nel suo Testamento
Francesco preciserà che i frati dovranno adottare uno stile umile anche in
ambito pastorale (vv. 6-7: FF 112). Poiché l’umiltà contrassegna la scelta
eucaristica di Cristo (cf. Am I, 16-18: FF 144; LOrd 26-29: FF
221), la vita dei frati deve ‘farsi’ eucaristia, deve assumere, cioè, quei
caratteri di umiltà e di povertà che contrassegnarono l’esistenza e le scelte
del Cristo.
La lezione della storia
L’abbozzo fin
qui tracciato ha posto sotto i nostri occhi una storia contrastata, frutto di
una “eredità difficile”: una tensione che trova la sua origine nella persona e
nell’esperienza di Francesco stesso. Perché la storia diventi veramente magistra
vitae, è tuttavia necessario che se ne apprenda la lezione.
Una
tensione perenne Cosa ci insegna dunque la storia francescana?
Anzitutto che le tensioni sono parte di essa, perché iscritte, potremmo dire, nel
suo DNA; tuttavia la storia mostra pure che le tendenze centrifughe vengono
contenute da una sana duttilità, capace di accogliere proposte al di fuori di
schemi e scelte ormai consolidati, purché non vengano favoriti i battitori
solitari ed orientamenti e strategie siano condivise nei luoghi deputati al
discernimento comunitario.
Ortodossia
e ortoprassi Otto secoli di vita insegnano pure che non basta
l’ortodossia per conservare l’unità, quando viene meno l’ortoprassi; esemplare,
a riguardo, è l’accoglienza riservata dagli Spirituali alla Exivi de
paradiso: la lettera di Clemente V sposava le critiche di Ubertino allo
stato di rilassatezza che si era diffuso nell’Ordine, ma smentiva le attese
degli Spirituali su alcuni aspetti essenziali; da un punto di vista teorico,
dunque, essa fu per loro un fallimento: eppure il Clareno la ritenne la più
vicina di tutte all’intenzione del Fondatore (Liber chronicarum VI,
258). Un impegno maggiore nella repressione degli abusi (e giova dire che le
accuse ripetute e circostanziate di Ubertino non furono mai smentite dalla
Comunità) avrebbe risolto molte cose. Allora come oggi!
Eremo-città
Sempre presente nella storia dell’Ordine si è rivelata poi la tensione
eremo-città; Francesco ed i suoi compagni
optarono per una “alternanza” (Merlo) eremo-città: nello stesso giorno, come
poté osservare anche Giacomo da Vitry nel 1216 (cf. FF 2206), i frati agivano
nelle città per poi ritirarsi, di notte, in luoghi solitari. Nel giro di pochi
anni la vita nell’eremo divenne una possibilità permanente (cf. Rnb XVII,
5: FF 47; Regola di vita negli eremi: FF 136-138) e, con il passare del
tempo, finì per divenire un’alternativa al francescanesimo urbano
(dall’alternanza si passò dunque all’alternativa): dall’eremo hanno preso avvio
riforme che hanno esercitato un peso decisivo nello sviluppo della famiglia
francescana. La storia mostra però che le riforme hanno conosciuto una
crescita, non solo numerica, quando hanno lasciato l’eremo per dirigersi verso
le piazze cittadine: Osservanti e Cappuccini insegnano…
Autocoscienza
istituzionale: sacerdoti e non-sacerdoti Povertà è stata la
parola-chiave, la miccia che ha causato notevoli e ripetute esplosioni: che si
trattasse di una povertà pensata, a difesa della pretesa supremazia spirituale
dell’Ordine, o della ricerca di una povertà vissuta, in nome di una fedeltà
allo spirito originario dell’Ordine. La
tensione tra le due anime del francescanesimo si manifestò ben presto, vivente
ancora Francesco, ma non si trattò di una lotta tra rigoristi e rilassati, come
volle all’epoca il Clareno e come, in tempi più vicini a noi, ha ritenuto il
Sabatier. In realtà, all’inizio le parti in conflitto rivelarono una diversa
coscienza della propria vocazione e della missione dell’Ordine: una parte si mostrò tenacemente attaccata alla memoria
delle origini propugnando una testimonianza silenziosa, basata su una vita di
condivisione con i poveri, sul lavoro manuale e sull’annuncio della penitenza;
un’altra parte, invece, si schierò risolutamente a favore di un inserimento
della famiglia francescana nell’attività pastorale, a servizio – e a vantaggio
– della riforma della Chiesa. La parte laicale dell’Ordine (quale spazio poteva
avere un frate laico nell’attività pastorale?), propese quindi per una
continuità con il modello delle origini, mentre la parte sacerdotale si rivelò
più incline all’opzione pastorale.
Gregorio IX contribuì in modo decisivo alla
vittoria del modello pastorale. Ma se un sacerdote celebra messa, confessa,
predica, insegna, si inserisce attivamente nella vita politica della città, ben
difficilmente lo si troverà in un lebbrosario o in un ospedale a curare gli
infermi. Furono allora soprattutto i frati laici, ai quali era impossibile
l’accesso a molte attività pastorali, a tener fede (almeno in alcuni casi) alla
primitiva memoria dell’Ordine. Tali chiavi di lettura, ovviamente, non vanno
assolutizzate: basti pensare all’esperienza di Antonio di Padova, il quale
all’intensa attività di predicazione, fece seguire la quiete di Camposampiero,
dove visse in condizioni molto simili a quelle raccomandate nella Regola per gli eremi. Allo stesso modo,
anche un personaggio come Elia, che non fu sacerdote, ma certo fu uomo di
grandi capacità ed energie, dinamico, votato più alla vita attiva ed al governo
che non alla solitudine ed alla quiete, trascorse – stando almeno alla
testimonianza di Tommaso da Eccleston – un periodo della propria vita in un
eremo, tra il 1230 e il 1232 (cf. FF 2502).
La storia
successiva ha visto i religiosi, laici e sacerdoti, agire secondo una netta
divisione di compiti: non soltanto il lavoro manuale, ma l’evangelizzazione
itinerante (uno sguardo anche veloce agli atti dei processi di canonizzazione è
sufficiente a convincersene), elemento fondamentale dell’esperienza primitiva,
si è mantenuta viva grazie soprattutto ai religiosi non sacerdoti. Si discute
molto oggi – almeno in Occidente – sui frati non sacerdoti e sulla natura
dell’Ordine: tuttavia, fin quando l’azione liturgico-pastorale continuerà ad
assorbire quasi tutte le energie, ogni possibile discorso sarà destinato al
fallimento.