mercoledì 29 ottobre 2014

FRANCESCO D’ASSISI A ROMA – Il primo viaggio



Nell’anno del Signore 1206 Francesco era un giovanotto di circa ventidue anni.  Se pensiamo ad un coetaneo dei nostri giorni , ad un figlio magari o ad un amico, ci rendiamo conto che a quei tempi si cresceva più in fretta, si affrontavano prima le grandi responsabilità della vita, si era già uomini  e maturi in un arco di tempo decisamente più breve di quanto la nostra gioventù possa oggi immaginare.
Nonostante la sua età, Giovanni , figlio di Bernardone, detto “ il francese “ a causa dei numerosi viaggi che il padre compiva in quella regione a motivo dei suoi commerci e per l’educazione ricevuta dalla madre di origine provenzale, aveva già vissuto con intensità alcune tappe fondamentali della storia di Assisi ed assaporato gioie e dolori di un’infanzia spensierata finita troppo presto nelle carceri di Perugia. Minato nel corpo da una misteriosa malattia contratta proprio durante quella prigionia, guarito ma non troppo e forse più ferito nell’anima che nel fisico, Francesco aveva visto sgretolarsi nell’arco di pochissimi anni le poche sicurezze che lo avevano accompagnato durante la sua formazione nella casa paterna.  Primo fra tutti il sogno di conquistarsi uno status sociale più elevato , la gloria del cavaliere , e il trionfo tramite la potenza delle armi. Una sensazione di vuoto e di sgomento si insinuava tra le macerie delle proprie ambizioni e non trovava pace perché nè i genitori, né gli amici, né qualche nobile e potente signore, era  riuscito a colmare il suo intimo desiderio di pienezza e di senso.
            Fu allora , nel momento in cui l’orizzonte delle sue ambizioni terrene si era dissolto, nel momento in cui nessuno sembrava in grado di indicargli una strada che lo conducesse a realizzarsi  nella vita, nel momento in cui nessuno gli diceva cosa dovesse fare, proprio allora  decise di rivolgersi a Dio, al Signore di tutti i signori. E pregando, invocando, supplicando decise di farsi mendicante, prima nell’’anima, perché il senso della sua vita , solo allora lo stava comprendendo, poteva essergli “ donato “  soltanto su sua umile ed incessante richiesta. Un mendicante affamato di vita e di significato che bussava testardo ed ostinato alla porta di Cristo.
            Fu a Cristo che si rivolse , a lui chiese spiegazioni ed ai suoi legittimi rappresentanti in Terra. Molti a quei tempi preferivano seguire vie più facili ma presto si allontanavano dalla strada giusta finendo in poco tempo ad ingrossare le fila dei movimenti ereticali. Non così Francesco, che se pur giovane, non rinunciò mai a percorrere i sentieri più impervi e faticosi dell’ortodossia. Sono noti i suoi ottimi rapporti col vescovo di Assisi e con i suoi preti di campagna. Ma prima ancora di ricorrere al Vescovo egli pensò bene di recarsi in pellegrinaggio a Roma dove avrebbe potuto pregare agevolmente lo stesso Principe degli Apostoli.

Così recita una bella orazione di S. Ambrogio:

Cristo è tutto per noi.
Se vuoi curare una ferita, egli è medico;
se sei riarso dalla febbre, è fontana;
se sei oppresso dall’iniquità, è giustizia;
se hai bisogno di aiuto, è forza;
se temi la morte, è vita;
se desideri il cielo, è via;
se fuggi le tenebre, è luce;
se cerchi cibo, è alimento.


Forse Francesco non conosceva questi versi di Sant’Ambrogio, ma ne condivise pienamente lo spirito.
Nei primi anni del XIII secolo Roma era molto diversa da come possiamo figurarcela noi oggi. E soprattutto non era affatto la grande metropoli che conosciamo tutti.  Invasioni, epidemie e pessime condizioni di vita avevano ridotto l’antica capitale dell’Impero Romano che ai tempi di Augusto vantava quasi un milione di cittadini, in un piccolo centro con una popolazione di certo inferiore agli ottantamila abitanti. Questa infatti, da molto tempo ormai  , aveva abbandonato la città per rifugiarsi nelle campagne o sulle alture fortificate meglio protette, portando a compimento quel processo di ruralizzazione e di abbandono dei centri urbani iniziato già nel V secolo d.C.

I domini delle grandi famiglie occupavano zone diverse della città, dove queste risiedevano in dimore fortificate e dominate da torri, che costituivano con la loro altezza un segno di ricchezza e potenza. Tra di esse i Conti di Tuscolo (Quirinale, dove furono quindi rimpiazzati dai Colonna) e i Crescenzi (rioni Ponte e Parione, dove in seguito ebbero sede gli Orsini), i Frangipane (Palatino e Colosseo) e i Pierleoni (rione Ripa, isola Tiberina e Trastevere), e in seguito i Conti di Segni (Viminale), i Savelli (Aventino e rione Ripa), i Caetani (Quirinale e isola Tiberina), gli Annibaldi (Colosseo ed Esquilino) e i Capocci (Viminale). Qua e là tra i ruderi delle antiche vestigia imperiali si ergevano invece chiese,  basiliche  e monasteri.




La stessa Basilica di San Pietro, dove, secondo la storia , Francesco si recò pellegrino scambiando i suoi preziosi abiti con quelli d’un povero, era quella fatta costruire dall’imperatore  Costantino nel IV secolo d.C. Dimentichiamoci dunque quella odierna  con la cupola di Michelangelo , la piazza rotonda ed il colonnato che imponente, sembra abbracciare il visitatore. La sua costruzione fu lunga e laboriosa, iniziando  nel 1452 per concludersi definitivamente  nel 1626 quando fu consacrata da Urbano VIII.  Non questo videro gli occhi di Francesco ma una struttura sensibilmente più piccola, pur nella sua maestà rapportata agli edifici dell’epoca, una basilica con ben cinque navate, sul modello di quella del Laterano.
Per avere un’idea di come questa basilica apparisse in quel periodo, il luogo migliore da visitare é la chiesa di San Paolo Fuori le Mura. Vi sono alcune differenze fra queste due costruzioni, ma é possibile capire quanto fosse grande una chiesa con cinque navate e come potesse funzionare ecumenicamente.  Nell’immenso transetto di San Pietro, i pellegrini potevano radunarsi per venerare i grandi Apostoli, le cui reliquie giacevano sotto un baldacchino sistemato sopra quattro colonne attorcigliate di bronzo, davanti all’abside. Di fronte alla basilica vi era un atrio, con una fontana a forma di un cono di pino dove molti mendicanti e poveri chiedevano l’elemosina. La facciata aveva ricche decorazioni in mosaico, mostrando il simbolo di Cristo con gli Apostoli. La navata era lunga 91 metri e terminava in un arco trionfale, con mosaici che mostravano Costantino che donava la basilica. Al di là, l’abside aveva un mosaico in cui erano raffigurati  il Cristo con Pietro e Paolo e sulle pareti della navata vi erano affreschi che mostravano scene dalla Bibbia e ritratti dei Papi.















Ecco come le Fonti francescane raccontano l’episodio:

VESTITO DA POVERO, MANGIA CON I POVERI
DAVANTI ALLA CHIESA DI SAN PIETRO

2Cel 8 FF 589


8. Fino da allora dimostrava di amare intensamente i poveri e questi inizi lodevoli lasciavano prevedere cosa sarebbe stato, una volta giunto a perfezione. Spesso si spogliava per rivestire i poveri, ai quali cercava di rendersi simile, se non ancora a fatti almeno con tutto l'animo. Si recò una volta in pellegrinaggio a Roma, e, deposti, per amore di povertà, i suoi abiti fini, si ricoprì con gli stracci di un povero. Si sedette quindi pieno di gioia tra i poveri, che sostavano numerosi nell'atrio, davanti alla chiesa di San Pietro e, ritenendosi uno di essi, mangiò con loro avidamente. Avrebbe ripetuto più e più volte azioni simili, se non gli avessero incusso vergogna i conoscenti. Si accostò poi all'altare del Principe degli Apostoli e, stupito delle misere offerte dei pellegrini, gettò là denaro a piene mani. Voleva, con questo gesto, indicare che tutti devono onorare in particolare modo colui che Dio stesso ha onorato al di sopra degli altri.


LegM 1,6;  FF 1037

Durante questo periodo, egli si recò a visitare, con religiosa devozione, la tomba dell'apostolo Pietro. Fu in questa circostanza che, vedendo la grande moltitudine dei mendicanti davanti alle porte di quella chiesa, spinto da una soave compassione, e, insieme, allettato dall'amore per la povertà, donò le sue vesti al più bisognoso di loro e, ricoperto degli stracci di costui, passò tutta la giornata in mezzo ai poveri, con insolita gioia di spirito.
Voleva, così, disprezzare la gloria del mondo e raggiungere gradualmente la vetta della perfezione evangelica. Si applicava con maggior intensità alla mortificazione dei sensi, in modo da portare attorno, anche esteriormente, nel proprio corpo, la croce di Cristo che portava nel cuore.
Tutte queste cose faceva Francesco, uomo di Dio, quando, nell'abito e nella convivenza quotidiana, non si era ancora segregato dal mondo.

3Comp 10. FF 1406


Avvenne in quel torno di tempo che Francesco si recasse a Roma in pellegrinaggio. Entrato nella basilica di San Pietro, notò la spilorceria di alcuni offerenti, e disse fra sé: "Il principe degli Apostoli deve essere onorato con splendidezza, mentre questi taccagni non lasciano che offerte striminzite in questa basilica, dove riposa il suo corpo". E in uno scatto di fervore, mise mano alla borsa, la estrasse piena di monete di argento che, gettate oltre la grata dello altare, fecero un tintinnio così vivace, da rendere attoniti tutti gli astanti per quella generosità così magnifica.
            Uscito, si fermò davanti alle porte della basilica, dove stavano molti poveri a mendicare, scambiò di nascosto i suoi vestiti con quelli di un accattone. E sulla gradinata della chiesa, in mezzo agli altri mendichi, chiedeva l'elemosina in lingua francese. Infatti, parlava molto volentieri questa lingua, sebbene non la possedesse bene.
             
Si levò poi quei panni miserabili, rindossò i propri e fece ritorno ad Assisi. Insisteva nella preghiera, affinché il Signore gl'indicasse la sua vocazione. A nessuno però confidava il suo segreto né si avvaleva dei consigli di alcuno, fuorché di Dio solo e talvolta del vescovo di Assisi. In quel tempo nessuno, in effetti, seguiva la vera povertà, che Francesco desiderava sopra ogni altra cosa al mondo, appassionandosi a vivere e morire in essa.


Scrive  Padre Fernando Uribe [1] “La presenza di Francesco a Roma è legata anzitutto al suo senso di fedeltà alla Chiesa. Egli volle sempre vivere la sua avventura evangelica in seno alla Chiesa e in comunione con i suoi pastori.”

Non è un caso se uno dei momenti più significativi del suo cammino di conversione e di realizzazione vocazionale abbia coinciso con la visita alla tomba del Principe degli Apostoli. Una lezione importante per chiunque pensi di poter seguire Cristo facendo a meno della guida e del magistero dei suoi vicari in terra. 
             
                                                                                              Antonio Fasolo Ofs






( continua )




[1] ” Itinerari Francescani “  ( Ed.  Messaggero di Padova – Padova 1997 ) p.22


sabato 25 ottobre 2014

E FERMAMENTE VOGLIO OBBEDIRE...

La scelta di Francesco subordinata nelle relazioni

di Grado Giovanni Merlo docente di Storia del Cristianesimo presso l’Università degli Studi di Milano
Merlo 01Sudditi di tutti
Il Duecento è il secolo in cui in modo più evidente e clamoroso si espresse la plenitudo potestatis, la «pienezza di potere» del papa della cristianità latina. Essa significò ierocrazia, vale a dire la volontà di “dominio del mondo” da parte del “sacerdozio”. Di ciò frate Francesco non si interessa. La sua scelta religiosa comporta la rinuncia a qualsiasi posizione ed esercizio di potere nella società e nella Chiesa.
Il suo francescanesimo è subordinativo e ciò incide pure nella definizione e nella realizzazione delle relazioni con e tra i suoi fratelli/frati. Le attestazioni sono numerose. È sufficiente scorrere i vari capitoli della Regola non bollata del 1221 per averne una prima chiara visione.
Nel capitolo V, per esempio, si legge: «Tutti i fratelli non abbiano potere o signoria (potestas vel dominatio), soprattutto tra di loro. Come infatti dice il Signore nel vangelo: I principi delle nazioni dominano su di esse e i più grandi esercitano su di esse il potere. Non così tra i fratelli. Ma chiunque vorrà farsi grande tra di essi, sia loro ministro e servo. E chi è il maggiore tra di loro diventi come il minore». Ancora, nel capitolo VII si trovano espressioni oramai famose: «Tutti i fratelli, in qualunque luogo si trovino a servire o a lavorare presso altri, non siano tesorieri né cancellieri, né siano a capo nelle case in cui servono, né accettino alcun ufficio che crei scandalo o arrechi danno alla loro anima, ma siano minori e sudditi di tutti quelli che sono in quella stessa casa».Nel capitolo precedente della stessa Regola non bollata si rinvengono parole altrettanto importanti: «E nessuno sia chiamato priore, ma generalmente tutti si chiamino fratelli minori; e l’uno lavi i piedi all’altro». All’interno o all’esterno della fraternità per il fratello/frate è inaccettabile una posizione di dominio. Su ciò non esiste alcun dubbio, né necessita qui moltiplicare le citazioni dagli Scritti francescani. Il potere, espresso dai termini latini potestas e dominatio, è del tutto estraneo all’ispirazione di fondo di frate Francesco, alla sua volontà di «vivere secondo il modello del santo vangelo». La “sequela del Cristo” significa adeguarsi al principio contenuto nel Vangelo di Matteo (20,28) che recita: «Non sono venuto per essere servito, ma per servire». Questo versetto, con ogni probabilità, doveva ritornare non raramente sulla bocca di frate Francesco, se qualcuno ne sintetizzò il dire in una delle cosiddette Ammonizioni, nella quale il versetto stesso viene così commentato: «Coloro che sono costituiti sopra gli altri, si glorino tanto di quella prelatura quanto se fossero destinati all’ufficio di lavare i piedi dei fratelli. E quanto più si turbano se viene loro tolta la prelatura che se fosse loro tolto il compito di lavare i piedi, tanto più mettono insieme per sé un tesoro fraudolento a pericolo della propria anima» (Am IV: FF 152).
Merlo 02 (Ivano Puccetti)La rinuncia alla guida
Non occorre insistere ulteriormente sul “servizio” come alternativa totale al “potere”, anche religioso ed “ecclesiastico”. Tuttavia, non è difficile immaginare che nella fraternità, prima, e nell’Ordine, dopo, problemi di guida e di convivenza potessero porre concrete esigenze di assumere atteggiamenti e di compiere azioni forzatamente non subordinativi, cioè, in altri termini, dominativi. Come si sarebbe comportato frate Francesco in circostanze del genere? Sappiamo che, quando fu costretto a tornare in Italia dall’Oltremare per l’emergere tra i fratelli/frati di scelte e comportamenti non conformi alle sue convinzioni, nel 1220 egli si rivolge a papa Onorio III per ottenere un cardinale che provvedesse a garantire la “disciplina” tra i frati minori: lo ottiene, scegliendo il potentissimo cardinale Ugolino d’Ostia (futuro papa Gregorio IX). Segue la decisione di frate Francesco di rinunciare alla guida “istituzionale” della fraternità, pur mantenendo la sua presenza esemplare in mezzo ai fratelli/frati.
La Chiesa romana è individuata come potere garante della “disciplina” dei fratelli/frati. La stessa Regola bollata del 1223 si conclude con l’espresso invito di frate Francesco ai fratelli/frati «di chiedere al signor papa uno dei cardinali della santa romana Chiesa, che sia governatore, protettore e correttore di questa fraternità»: il potere, dunque, in mano a chi istituzionalmente lo ha e lo deve gestire. Non è per caso che quelle parole precedano la precisazione della finalità attribuita alla presenza del cardinale («governatore, protettore e correttore»), così espressa: «affinché sempre sudditi e sottomessi alla stessa santa Chiesa, stabili nella fede cattolica, osserviamo la povertà e l’umiltà e il santo vangelo del Signor nostro Gesù Cristo che abbiamo fermamente promesso». 
Secondo il santo vangelo
Il potere degli uomini di Chiesa diventa qui una sorta di protezione che renda possibile la fedeltà al «vivere secondo il modello del santo vangelo». La cosa è senza dubbio sorprendente per una mentalità “moderna”, oggi assai diffusa, che giudica i prelati della Chiesa medievale in modo pregiudizialmente negativo, arrivando sino al punto di affermare, in maniera del tutto arbitraria e sbagliata, che Francesco d’Assisi avrebbe rischiato, in quanto vicino agli eretici, di essere messo al rogo! Egli è invece obbediente e sottomesso agli uomini di Chiesa, persino ai sacerdoti «più poverelli di questo secolo», che considera addirittura suoi «signori». Ma nei confronti dei suoi fratelli/frati?
Il discorso qui si fa complesso e articolato, poiché è sufficiente leggere i testi della Regola non bollata, della Regola bollata e del Testamento per scoprire una serie di espressioni che sembrerebbero esprimere una volontà di “dominio”, una intenzione di “potere” da parte di frate Francesco, per esempio, là dove nei suoi Scritti utilizza verbi alla prima persona: voglio, non voglio, dobbiamo, fermamente voglio, comando fermamente per obbedienza. Come conciliare questa affermazione di sé, con le parole del Testamento che così dicono: «E fermamente voglio obbedire al ministro generale di questa fraternità e ad altro guardiano che gli sarà piaciuto di assegnarmi. E così voglio essere prigioniero nelle sue mani, che io non possa andare o fare oltre l’obbedienza e la volontà sua, perché egli è mio signore» (Test 27-28: FF 124)? Le possibili risposte sono assai complesse e non formulabili in rapida sintesi. Per ora, rimanga alla riflessione personale quanto abbiamo scritto. Non mancheranno occasioni per ritornare sul tema “san Francesco e il potere”.

in Messaggero Cappuccino - Mensile di cultura e formazione cristiana dei Cappuccini dell'Emilia-Romagna Agosto-Settembre 2014

Dell’Autore segnaliamo:
Frate FrancescoIl Mulino, Bologna 2013, pp. 160