lunedì 7 dicembre 2015

COME CRISTO POVERO

Tutta la tradizione agiografica identifica san Francesco con l’espressione «il Poverello». Sia dai suoi scritti che dalle biografie emerge un inequivocabile riferimento alla povertà evangelica, affermata e vissuta nel modo più radicale.


DALLA REGOLA NON BOLLATA
[29] Tutti i frati si impegnino a seguire l'umiltà e la povertà del Signore nostro Gesù Cristo, e si ricordino che nient'altro ci è consentito di avere, di tutto il mondo, come dice l'apostolo, se non il cibo e le vesti, e di questi ci dobbiamo accontentare.

ULTIMA VOLONTA' SCRITTA A S. CHIARA
[140] Io, frate Francesco piccolo, voglio seguire la vita e la povertà dell'altissimo Signore nostro Gesù Cristo e della sua santissima madre e perseverare in essa sino alla fine. E prego voi, mie signore, e vi consiglio che viviate sempre in questa santissima vita e povertà. E guardatevi attentamente dall'allontanarvi mai da essa in nessuna maniera per insegnamento o consiglio di alcuno.

Ma perché per seguire il Vangelo Francesco scelse di diventare povero? E in che cosa consiste questa povertà?


Comprendere il senso di questo tratto della sua esperienza cristiana non è cosa immediata. Non è un caso che il tema della povertà è divenuto ben presto nell’Ordine che da lui è nato motivo di contese ed anche di divisione. D’altra parte non è difficile notare che della povertà vissuta da san Francesco si può parlare in modi molto diversi, comprendendola in termini ascetici, oppure sociali e persino rivoluzionari. Come si deve comprendere la scelta dell’Assisiate?

Per poterci avvicinare all’esperienza singolare del Poverello si deve guardare al suo percorso esistenziale. Egli di nascita non appartiene ad un ceto povero, ma benestante. È figlio di un commerciante che aveva fatto fortuna permettendo un tenore di vita assai agiata alla propria famiglia. Il suo percorso di conversione, lungo e sofferto, lo porta alla scelta di abbracciare una vita realmente povera. Nulla spiega una tale scelta, che arriva fino alla restituzione pubblica al padre di ogni cosa ricevuta, se non ci si accorge di chi è Gesù Cristo per Francesco.

Il santo di Assisi compie una svolta a 360 gradi e “da appartenente alla classe agiata, che contava nella città per nobiltà o ricchezza, egli ha scelto di collocarsi all’estremità opposta, condividendo la vita degli ultimi”.

Seguendo l’esortazione di Gesù, ignorata dal Giovane Ricco (cfr. Mt 19,16-22), Francesco è mosso dalla carità verso gli esseri umani, non dalla “ricerca della propria perfezione”. Paradossalmente il giovane ricco si sente povero e sperimenta un limite esistenziale da cui vorrebbe venir fuori, perché più che di beni è ricco di se stesso, di orgoglio, di presunzione di salvarsi da solo.

Francesco invece   non ha scelto tra ricchezza e povertà ma “tra se stesso e Dio”, tra “salvare la propria vita o perderla per il Vangelo”.
Francesco attraverso alcune esperienze fondamentali ( vedi alcuni episodi del suo iniziale cammino di conversione....) scopre che la povertà non consisteva nell'aiutare i poveri, consisteva nell'essere povero. Aiutare i poveri era cosa fondamentale essendo parte ed espressione della carità ma essere povero era un'altra cosa. Gesù era stato povero. Francesco voleva essere povero. Essere povero significava non avere nulla o quasi nulla, significava non possedere ricchezze, non possedere cose, non possedere denaro, non possedere sicurezze, proprio come i poveri, proprio come Gesù. 
Cerchiamo di capire meglio in cosa consista la povertà di Francesco e quella di Gesù.
Fil.2,5-11
Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, 6 il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; 7 ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, 8 umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. 9 Per questo Dio l`ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; 10 perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; 11 e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre.
Kenosi di Cristo ed  “Espropriazione” di Francesco.
Nella Regola cosiddetta Non Bollata, un testo al contempo legislativo e fortemente carismatico, Francesco descrive la sua forma di vita in questi termini: «Tutti i frati si impegnino a seguire l’umiltà e la povertà del Signore nostro Gesù Cristo». Questa espressione la troviamo ripetuta in modi diversi negli scritti e nelle agiografie ed indica il vero motivo della sua scelta. La povertà è il modo con cui il figlio di Dio è entrato nel mondo ed ha portato a compimento la nostra salvezza. Pertanto la povertà, abbracciata liberamente, è espressione dell’amore per l’umanità di Cristo. 
È evidente che il santo d’Assisi non desidera la miseria, desidera seguire le orme di colui che ama in ogni cosa e sopra ogni cosa. Attraverso una vita povera egli intende imitare Dio stesso, il suo entrare nella storia.
Inoltre, Francesco fa l’esperienza che seguire Cristo sulla via della povertà evangelica fa diventare «Signori», rende il cuore libero, apre gli orizzonti, permette di entrare in rapporto con la vita in modo nuovo, oltre ogni misura ed ogni calcolo. Egli mostra come l’attaccamento ai beni, il porre la speranza in quello che si possiede rende il cuore dell’uomo schiavo e triste, chiudendolo in una cupidigia che lo consuma. La povertà evangelica, invece, rende il cuore capace di letizia e gratitudine. ( vedi “ Perfetta Letizia )
Da ultimo, questa scelta di povertà evangelica mette effettivamente san Francesco in una posizione di vicinanza e di compassione nei confronti di coloro che soffrono l’indigenza, a cominciare dai più colpiti dalla emarginazione nel suo tempo: i lebbrosi. La sua vicinanza a loro tuttavia non è mai strategica o ideologica ma espressione della sua radicale affezione a Cristo, il quale per amore nostro e liberamente ha preso su di sé la condizione ferita di ogni uomo.
“Come gli altri poveri” è il modello sociale e concreto che Francesco propone ai suoi frati per quanto riguarda il cibo, il vestito, l’abitazione; “come il Signore Gesù Cristo” è il modello spirituale per quanto riguarda il modo, i sentimenti con cui vivere. La povertà francescana dovrà avere in ogni tempo e in ogni contesto geografico questi due punti di riferimento: la concretezza della povertà dei poveri e i sentimenti che furono in Cristo Gesù.
Scegliere poi la povertà ( intesa come sobrietà e solidarietà)  è il modo migliore per combattere la povertà iniqua, che opprime tanti uomini e donne e minaccia la pace di tutti.
Quindi la povertà scelta da Francesco è qualcosa di più profondo e articolato che la semplice rinuncia ai beni o una contestataria scelta di pauperismo. In verità  alla discutibile concezione pauperistica di San Francesco ha contribuito sia l’anonimo autore del XII sec. del Sacrum Commercium Beati Francisci cum do] mina Paupertate. – cioè le “Mistiche nozze del S. Francesco con Madonna Povertà”. Dove La Povertà   è più signora (domina) che sposa, sia  Dante Alighieri,  nel canto XI del Paradiso che usa le medesime espressioni :
a’ frati suoi, sì com’ a giuste rede,
raccomandò la donna sua più cara,
e comandò che l’amassero a fede;

( Dante, Paradiso canto XI )

Occorre diffidare di queste concezioni semplicistiche perché è impossibile innamorarsi di una virtù, mentre è normale innamorarsi di una persona, come fa Francesco con Cristo.
“Francesco non sposò la povertà e neppure i poveri; sposò Cristo e fu per amor suo che sposò, per così dire 'in seconde nozze' Madonna povertà. E così sarà sempre nella santità cristiana.
Se alla base dell’amore per la povertà e per i poveri, non c’è l’amore per Cristo, “i poveri saranno in un modo o nell’altro strumentalizzati e la povertà diventerà facilmente un fatto polemico contro la Chiesa, o una ostentazione di maggiore perfezione rispetto ad altri nella Chiesa, come avvenne, purtroppo, anche per alcuni dei seguaci del Poverello”.
Ma i laici francescani possono vivere nel mondo la stessa povertà di Francesco?
Come disse una volta il futuro Paolo VI “è possibile maneggiare i beni di questo mondo senza restare prigionieri e vittime?”, parlando appunto di san Francesco. Che voleva domandarsi il futuro papa con queste parole?
Questo Francesco ha qualcosa da dirci in questa realtà concreta in cui noi laici dobbiamo fare i conti con i beni di questo mondo, col denaro, persino anche con la finanza?In che modo è possibile coniugare Madonna Povertà e Madonna Economia?
Per comprendere questo è  importante la riflessione che fecero i frati dopo Francesco, soprattutto Pietro di Giovanni Olivi, sul fatto che il problema non è il denaro ma l’uso del denaro per cui Olivi arriva a dire “anche un mercante può essere santo se usa il denaro per il bene comune”. I frati devono avere un uso povero del denaro, oggi diremmo un uso sobrio. I manager, persone che lavorano nella finanza, nel mondo dell’economia, devono fare un uso del denaro per il bene comune.
La concezione della povertà di Francesco porta come sbocco naturale, alla perfetta   letizia. Così espressa in un celebre fioretto: «Avvenne un tempo che san Francesco d’Assisi e frate Leone andando da Perugia a Santa Maria degli Angeli, il santo frate spiegasse al suo compagno di viaggio cosa fosse la perfetta letizia. Era una giornata d’inverno e faceva molto freddo e c’era pure un forte vento e… mentre frate Leone stava avanti, frate Francesco chiamandolo diceva: “frate Leone, se avvenisse, a Dio piacendo, che i frati minori dovunque si rechino dessero grande esempio di santità e di laboriosità, annota e scrivi che questa non è perfetta letizia“. Andando più avanti san Francesco chiamandolo per la seconda volta gli diceva: “O frate Leone, anche se un frate minore dia la vista ai ciechi, faccia raddrizzare gli storpi, scacci i demoni, dia l’udito ai sordi… scrivi che non è in queste cose che sta la perfetta letizia…”. E così andando per diversi chilometri quando, con grande ammirazione frate Leone domandò: “padre ti prego per l’amor di Dio, dimmi dov’è la perfetta letizia”. E san Francesco rispose: “quando saremo arrivati a Santa Maria degli Angeli e saremo bagnati per la pioggia, infreddoliti per la neve, sporchi per il fango e affamati per il lungo viaggio busseremo alla porta del convento. E il frate portinaio chiederà: chi siete voi? E noi risponderemo: siamo due dei vostri frati. E lui non riconoscendoci, dirà che siamo due impostori, gente che ruba l’elemosina ai poveri, non ci aprirà lasciandoci fuori al freddo della neve, alla pioggia e alla fame mentre si fa notte. Allora se noi a tanta ingiustizia e crudeltà sopporteremo con pazienza ed umiltà senza parlar male del nostro confratello, anzi penseremo che egli ci conosca… allora frate Leone scrivi che questa è perfetta letizia…”.
Cosa dice Francesco? Che chi è povero di sé, è povero di orgoglio, cioè non lega la propria “autostima”, come si dice oggi, ai fatti, alle circostanze, al successo, alla fama, al riconoscimento degli altri, quindi è veramente lieto. Nessuno infatti può portargli via nulla, perché ciò che gli sta a cuore non sono gli sguardi degli uomini, ma il sentirsi guardato, giudicato, amato da Dio.
Si tratta di una povertà scelta e quindi andrà vissuta nella gioia, o nella “letizia” per usare un termine tipicamente francescano. Nella Regola Francesco scriverà che i frati «devono essere lieti quando vivono tra persone di poco conto e disprezzate, tra poveri e deboli, infermi e lebbrosi e tra i mendicanti lungo la strada» (Rnb, IX,2: FF 30). Qui appare evidente lo stretto e necessario collegamento tra povertà, minorità, fraternità e letizia; tra il vivere per i poveri, con i poveri e da poveri.
Ma è soprattutto in tempi di crisi economica come i nostri che la povertà francescana può avere qualcosa da suggerire/regalare a tutti: una verifica per stabilire che cosa è davvero necessario e che cosa è superfluo; il recupero di uno stile di vita più semplice, sobrio ed austero rispetto a quello proposto dalla pubblicità consumistica; un cambiamento di prospettiva che privilegi la qualità delle relazioni interpersonali rispetto alla quantità delle cose possedute. La crisi economica, da grande disgrazia, potrebbe così diventare per tutti provvidenziale occasione di arricchimento in umanità. È il suggerimento di quel Poverello che, oltre ad essere ammirato da tutti, potrebbe forse venire anche imitato da qualcuno.
                                 
                                                                            a cura di Antonio Fasolo Ofs
Francesco d’Assisi: la povertà è «Signora»
di fra Paolo Martinelli*
http://tracce.it
Sposati con madonna Povertà
Scegliere la povertà per mettersi in relazione fruttuosa col mondo 
di Dino Dozzi 
( MC novembre-dicembre 2015 )
San Francesco non scelse "tra ricchezza e povertà" ma "tra se stesso e Dio"Città del Vaticano, 06 Dicembre 2013 (ZENIT.org) Luca Marcolivio

domenica 1 novembre 2015

L' AVETE FATTO A ME.

TESTAMENTO DI FRANCESCO D'ASSISI

[110] Il Signore dette a me, frate Francesco, d'incominciare a fare penitenza così: quando ero nei peccati mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi mi sericordia. E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza d'animo e di corpo. E di poi, stetti un poco e uscii dal mondo.

Papa Francesco durante il suo primo Angelus, commentando il brano evangelico dell’Adultera, ha richiamato tutti al mistero della misericordia di Dio: «Lui mai si stanca di perdonare, ma noi, a volte, ci stanchiamo di chiedere perdono… Lui è il Padre amoroso che sempre perdona, che ha quel cuore di misericordia per tutti noi. E anche noi impariamo ad essere misericordiosi con tutti».  
San Beda il Venerabile, commentando questa scena del Vangelo, ha scritto che Gesù guardò Matteo con amore misericordioso e lo scelse: miserando atque eligendo.[7] Mi ha sempre impressionato questa espressione, dice Papa Francesco, tanto da farla diventare il mio motto.
Dice inoltre il Santo Padre bolla di indizione del Giubileo della misericordia :
6. « È proprio di Dio usare misericordia e specialmente in questo si manifesta la sua onnipotenza ».[5] Le parole di san Tommaso d’Aquino mostrano quanto la misericordia divina non sia affatto un segno di debolezza, ma piuttosto la qualità dell’onnipotenza di Dio. È per questo che la liturgia, in una delle collette più antiche, fa pregare dicendo: « O Dio che riveli la tua onnipotenza soprattutto con la misericordia e il perdono ».[6] Dio sarà per sempre nella storia dell’umanità come Colui che è presente, vicino, provvidente, santo e misericordioso.
In queste espressioni, semplici e profondissime, si trova anche la radice dell’esperienza cristiana di Francesco d’Assisi. "La misericordia in effetti è uno dei temi cardini del francescanesimo “  
Alcuni suoi scritti e numerose agiografie mettono in evidenza come la sua vicenda personale sia caratterizzata proprio dalla scoperta della misericordia di Dio verso di sé che apre all’essere a propria volta misericordiosi. Nel suo Testamento, dove Francesco rilegge tutta la sua vita, ormai giunto al termine dei suoi giorni, riconosce l’origine del suo percorso: «quando ero nei peccati mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia». Non dimentichiamo quello che Francesco dice nella stessa frase: “Il Signore mi condusse tra loro”. La misericordia fu il primo frutto del suo avvicinamento al Signore. Ci sono stati alcuni (per esempio, in tempi a noi vicini, Simone Weil) che sono arrivati a Cristo partendo dall’amore per i poveri e vi sono stati altri che sono arrivati ai poveri partendo dall’amore per Cristo. Francesco appartiene a questi secondi. Ma questo riflette l’ordine profondo che c’è tra le opere e la grazia. Francesco ha dapprima esperimentato la misericordia di Dio verso di lui, la misericordia come dono gratuito, ed è questo che lo ha spinto e gli ha dato la forza di avere misericordia del lebbroso e dei poveri. 
 
Egli incontra una realtà che gli è data, davanti alla quale conosceva solo la fuga a causa del suo “essere nei peccati”, mentre nella fede impara ad accoglierla, ad “usare misericordia”. Quella persona ferita diventa per Francesco segno nel quale il mistero di Dio lo raggiunge. Da qui il Santo di Assisi inizia il suo cammino, in cui riconosce il perdono di Dio per i propri peccati ed impara ad essere misericordioso. Questo sguardo determinerà san Francesco in tutti i suoi rapporti.

C’è un episodio della vita di San Francesco in cui traspare maggiormente il volto della misericordia.
[234] A frate N... ministro. Il Signore ti benedica! Io ti dico, come posso, per quello che riguarda la tua anima, che quelle cose che ti sono di impedimento nell'amare il Signore Iddio, ed ogni persona che ti sarà di ostacolo, siano frati o altri anche se ti coprissero di battiture, tutto questo devi ritenere come una grazia. E così tu devi volere e non diversamente. E questo tieni in conto di vera obbedienza da parte del Signore Iddio e mia per te, perché io fermamente riconosco che questa è vera obbedienza. E ama coloro che agiscono con te in questo modo, e non esigere da loro altro se non ciò che il Signore darà a te. E in questo amali e non pretendere che diventino cristiani migliori. [235] E questo sia per te più che stare appartato in un eremo. E in questo voglio conoscere se tu ami il Signore ed ami me suo servo e tuo, se ti diporterai in questa maniera, e cioè: che non ci sia alcun frate al mondo, che abbia peccato, quanto è possibile peccare, che, dopo aver visto i tuoi occhi, non se ne torni via senza il tuo perdono, se egli lo chiede; e se non chiedesse per dono, chiedi tu a lui se vuole essere perdonato. E se, in seguito, mille volte peccasse davanti ai tuoi occhi, amalo più di me per questo: che tu possa attrarlo al Signore; ed abbi sempre misericordia per tali fratelli.


Nella sua Lettera ad un Ministro, (così egli chiamava i superiori nel suo ordine, cioè servitori), che presumibilmente voleva lasciare l’incarico a causa dei problemi che doveva affrontare quotidianamente, Francesco lo invita ad accogliere quella realtà che sembra disturbarlo dal suo personale rapporto con Dio: «quelle cose che ti sono di impedimento nell’amare il Signore Iddio, ed ogni persona che ti sarà di ostacolo, siano frati o altri anche se ti coprissero di battiture, tutto questo devi ritenere come una grazia». Vale a dire: il rapporto con Dio passa attraverso il dramma della vita quotidiana e non nella nostra fantasia religiosa. Per questo aggiunge: «E questo tieni in conto di vera obbedienza da parte del Signore Iddio e mia per te, perché io fermamente riconosco che questa è vera obbedienza». Si obbedisce a Dio quando si accetta il rischio dell’impatto quotidiano con il reale in cui il Mistero tocca la nostra libertà.
 

Francesco poi aggiunge: «E ama coloro che agiscono con te in questo modo… e non pretendere che diventino cristiani migliori». A noi è difficile capire oggi che cosa voglia dire stare di fronte all’altro senza pretendere che sia “migliore”, tanto il nostro cristianesimo è ridotto moralisticamente. Ma è proprio così, poiché la vita cambia quando la si accoglie come è e non perché la si piega ad un proprio pregiudizio.
 

Ma l’indicazione più dirompente la troviamo nei versetti successivi in cui l’Assisiate scrive a questo ministro come comportarsi di fronte ai frati che commettono peccato: «E in questo voglio conoscere se tu ami il Signore ed ami me suo servo e tuo, se ti diporterai in questa maniera, e cioè: che non ci sia alcun frate al mondo, che abbia peccato, quanto è possibile peccare, che, dopo aver visto i tuoi occhi, non se ne torni via senza il tuo perdono, se egli lo chiede; e se non chiedesse perdono, chiedi tu a lui se vuole essere perdonato. E se, in seguito, mille volte peccasse davanti ai tuoi occhi, amalo più di me per questo: che tu possa attrarlo al Signore; ed abbi sempre misericordia per tali fratelli».

Francesco d’Assisi guarda l’altro con il perdono di Dio negli occhi e nel cuore. La misericordia appare qui il principio che rigenera continuamente l’umano, vincendo indomabilmente tutte le resistenze.

Questa è in fondo la consapevolezza che Francesco d’Assisi ha sperimentato lungo il suo cammino: essere un peccatore perdonato, divenendo segno della misericordia di Dio. Questa realtà è bene espressa da un noto passaggio dei Fioretti, in cui frate Masseo di fronte al suo “successo” esclama: «Perché a te tutto il mondo viene dirieto, e ogni persona pare che desideri di vederti e d’udirti e d’ubbidirti? Tu non se’ bello uomo del corpo, tu non se’ di grande scienza, tu non se’ nobile onde dunque a te che tutto il mondo ti venga dietro? ». Ecco la risposta di Francesco: perché gli occhi di Dio «non hanno veduto fra li peccatori nessuno più vile, né più insufficiente, né più grande peccatore di me… perciò ha eletto me per confondere la nobilità e la grandigia e la fortezza e bellezza e sapienza del mondo, acciò che si conosca ch’ogni virtù e ogni bene è da lui, e non dalla creatura, e nessuna persona si possa gloriare nel cospetto suo».


Egli ha sperimentato così la misericordia divina e l’elezione di Dio ad essere segno della sua grazia. Questo richiama alla mente il moto scelto, non a caso, da Papa Francesco, in riferimento all’incontro tra Gesù e Matteo: «Miserando atque eligendo», guardandolo con misericordia lo scelse. Questo è il mistero della misericordia che confonde il mondo nella sua presunzione.
Come può l’esperienza di San Francesco essere maestra di misericordia per noi, uomini e donne d’oggi?
In molti modi. Una è andare incontro ai “nuovi lebbrosi” di oggi, le persone evitate o allontanate da tutti; andare come lui verso gli ultimi, verso le “periferie esistenziali” che esistono anche vicino a noi. Soprattutto Francesco ci addita la fonte da cui si può attingere la forza per fare questo, ed è vedere Cristo nel fratello, ricordarsi di quella parola di Cristo: “L’avete fatto a me”.

                                                                     a cura di Antonio Fasolo ofs
IL CARISMA FRANCESCANO 
La misericordia che rigenera l'umano
di fra Paolo Martinelli*
15/04/2013 Tracce.it
Paolo Martinelli - Pietro Messa, Francesco e la misericordia, EDB, Bologna 2015

martedì 28 aprile 2015

28 Aprile – Beato Lucchese da Poggibonsi Terziario Francescano ( 1181-1251 )

Martirologio Romano: Presso Poggibonsi in Toscana, beato Lucchese, che, dapprima avido di lucro e poi convertito vestì l’abito del Terz’Ordine dei Penitenti di San Francesco, vendette i suoi beni e li distribuì ai poveri, servendo in povertà e umiltà Dio e il prossimo secondo lo spirito del Vangelo.
Beatificato da Innocenzo XII il 27 marzo 1697, Gregorio XVI ne confermò il culto il 23 agosto 1883.
Il beato Lucchese nacque nel 1181 circa a Gaggiano, un villaggio nei pressi di Cedda, antico borgo con bella chiesa romanica a circa quattro Km dall'attuale Poggibonsi, in  Toscana. Ivi una tradizione, documentata almeno dal sec. XV, mostra gli avanzi della sua casa e nell'attiguo Poggio di Montignano  viene  identificato il suo podere,   laddove sono presenti ruderi di un fabbricato, detto il Casalone di San Lucchese. In giovane età sposò una ragazza di nome Bona o Buonadonna figlia di tale Bencivenni di Buono da cui ebbe sicuramente dei figli. Proveniente da una famiglia di contadini preferì dedicarsi al commercio unitamente all'attività di cambiavalute,   mestiere allora redditizio per chi come lui si trovava ad abitare in una zona così centrale della Toscana dove confluivano facilmente monete pisane, fiorentine e senesi. Ben presto tuttavia passò a fare il grossista di grano, alimentari e foraggi  facendosi incettatore e speculatore senza scrupoli .  In quegli stessi anni Lucchese partecipò attivamente anche alla vita politica della sua città dove , sempre secondo la tradizione , fu capo della locale fazione Guelfa , attirandosi purtroppo l'inimicizia di potenti avversari; si ipotizza gli Squarcialupi di Monternano, signori della zona. Per questo tra il tra il 1200 e il 1210,  dovette abbandonare la natia Gaggiano, trovando rifugio nel vicino borgo sorto presso il Castello di Poggio Bonizio, ( attuale Poggibonsi ) dove si dedicò totalmente e non sempre onestamente agli interessi materiali, nel tentativo forse di superare la sua origine contadina ed avvicinarsi così alle classi più elevate. Morti i figli per cause imprecisabili, messo al bando per motivi politici Lucchese viene raggiunto   dalla mano di Dio. Nell’anno 1211 o 1212, al passaggio di S. Francesco per Poggibonsi  Lucchese chiede a lui l'abito del Terz'Ordine e l'ottiene insieme alla moglie, e ad altri fedeli del paese e dei dintorni,   abbandona gli affari e da interessato diventa generoso, distribuisce ai poveri denaro e merci, vende infine ogni cosa "assensu coniugis " (con il consenso della moglie) e si riserva solo l'acquisto d'un campo o orto di un ettaro, da cui trarre il modesto vitto quotidiano con la coltivazione degli ortaggi. E’ il 1227.   Qui Lucchese lavorava il piccolo podere con le sue mani per trarre il necessario per sé, per la moglie e i bisognosi specialmente infermi che assisteva nel vicino ospedale di S. Maria Maddalena. Soccorreva per quanto possibile, tutti gli infermi e i bisognosi che trovava  e spesso andava persino a cercarli spingendosi a questo scopo fino alla lontana Maremma. Dedito alla penitenza e all’orazione, si accostava frequentemente ai sacramenti e spandeva in paese e nei dintorni il profumo della sua santità, confermata, anche in vita, dal dono dei miracoli. Era assiduo nell'ascoltare e meditare la Parola di Dio, nell'essere presente alla Liturgia e a tutte le celebrazioni fraterne e comunitarie, integro nei costumi, dedito ad ogni sorta di penitenze, nel silenzio, nel distacco dalle cose e dal mondo, nell'umiltà, nella pazienza e nella sopportazione delle croci e delle miserie temporali.
Così trascorse il resto della sua esistenza amando Dio, i  poveri e i malati e spargendo ovunque il profumo soave di Cristo per mezzo della sua bontà e della sua misericordia. Quando la moglie si ammalò gravemente egli la soccorse con la massima carità e secondo l’unanime tradizione  una volta morta  , la raggiunse in cielo spirando qualche minuto dopo di lei. Mancavano tre giorni alla fine del mese di Aprile, l'anno del Signore 1251.
Riguardo alla data di morte   tradizionalmente fissata al 28/4/1260,   a seguito della recente acquisizione di un   importantissimo documento presso l’Archivio di Stato di Siena, si ritiene debba essere anticipata almeno al 1251[1] .
Preghiera a San Lucchese.
O inclito confessore di Cristo S. Lucchese, protettore speciale di Poggibonsi, gloria della Valdelsa e primo fra i seguaci di San Francesco d’Assisi nel suo Terz’Ordine, noi ti preghiamo a concederci la grazia di potere imitare le tue grandi virtù, e segnatamente la carità verso il prossimo bisognoso e sconsolato, ricordandoci in ogni tempo e in ogni luogo che il prossimo, massimo se bisognoso e sconsolato, riveste la persona augusta del nostro Signore Gesù Cristo, e quello che si fa ad esso, il Signore lo prende come se fosse fatto a se stesso. Deh ! Fa’ nostro caro avvocato, che noi siamo sempre saldi e costanti nell’esercizio ininterrotto delle opere di carità, sapendo che Dio è carità e chi rimane nella carità rimane in Dio e Dio rimane con lui. E, se Dio rimane con noi, chi ci potrà impedire il cammino del bene? In esso vogliamo persistere irremovibili fino alla morte. Ricoprici tu coi tuoi meriti e con la tua protezione. E così sia.
Link


[1] Nel 1980 fu rintracciato nell’Archivio di Stato di Siena un documento d’eccezionale interesse. Si trattava di un testamento redatto da un notaio di Poggibonsi e datato 4/12/1251. Il testatore, che si chiamava Forzore di Siribuano ed abitava nell’antico castello di Poggiobonizio, nella contrada di Stoppia, era forse un artigiano che esercitava anche la marcatura ed il prestito ad usura. Coetaneo di Lucchese, col quale forse condivideva un tempo la stessa attività, dovette essere certamente colpito dal suo esempio tanto da essere indotto, quando era ancora in salute e nel pieno delle sue forze, a rivedere la propria vita in conformità dello spirito evangelico. Nel suo testamento, infatti, egli si preoccupa di beneficare largamente i poveri, trascurando moglie, figli e nipoti. Fra le altre cose, disponeva una donazione di cinque soldi da depositare sopra il sepolcro di Lucchese. Di conseguenza, oggi possiamo essere sicuri che i coniugi dovettero essere già morti prima di quella data. Riguardo al giorno ed al mese della loro dipartita, la tradizione ha invece indicato sempre unanimemente il 28 aprile

martedì 17 marzo 2015

COME VERI ISRAELITI




 
S.Bonaventura narra che in un giorno di Pasqua, in un certo  romitorio (l'agiografo non specifica di quale eremo si trattasse, ma sappiamo che fu in quello di Greccio durante gli ultimi   anni di vita del Santo), Francesco ammaestrò i frati “con santi discorsi a celebrare continuamente la Pasqua del Signore, cioè il passaggio da questo mondo al Padre, passando per il deserto del mondo in povertà di spirito, come  pellegrini e forestieri”.

In questa circostanza   il santo d’Assisi che amava la concretezza e sempre si sforzava di rendere reale e tangibile ogni esperienza di fede ,    era  assorto nella meditazione del mistero che egli cercava sempre di  rendere   attuale. Fu per questo che con un espediente teatrale di grande effetto si presentò ai suoi in veste di mendicante e dopo averne ottenuta l’elemosina improvvisò una memorabile lezione sul senso e lo scopo  dell’itineranza spirituale del frate minore.

Fare pasqua fu per Francesco più che un punto di arrivo, uno stile di vita. Dal momento in cui ascoltò la chiamata del Signore a San Damiano, passando per lo spogliamento davanti al vescovo ed al bacio al lebbroso, come Abramo abbandonò tutto per abbracciare l’avventura della ricerca della terra promessa. Anche a lui come ad Abramo è assicurata una discendenza numerosa come le stelle del cielo, ma è necessario che cammini nella penombra, a volte in una vera e propria oscurità dove nessuno gli dice o gli suggerisce la strada . Egli rivive pienamente l’esodo del popolo ebraico che lascia ogni sicurezza pur   legata ad una condizione di schiavitù, per affrontare l’incertezza del cammino secondo libertà , imprevedibile , pieno di rischi e di cadute ma non disperato perché garantito dalla promessa di Dio di una terra ove scorre latte e miele. E’ la terra promessa ai padri, ma non ancora conosciuta nè vista. L’Esodo ci suggerisce Francesco,  è un grande viaggio da fare: uscire dall’Egitto per entrare nella buona terra.
Durante questo lungo viaggio, al centro si pone come decisivo l’evento del Sinai: l’incontro del popolo con il suo Dio, la grande esperienza religiosa che darà il senso e la forma a tutto quello che succederà in seguito.
Francesco ogni giorno della sua vita prega e supplica di    «avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione»  , perché ogni giorno l’uomo possa sperimentare nella preghiera  la visione consolatrice di Dio, questa ierofania che come la nube o la colonna di fuoco per il popolo ebraico, gli indica la via più sicura per attraversare il deserto del mondo.
Ma per possedere lo spirito del Signore, «non dobbiamo essere sapienti e prudenti secondo la carne, ma piuttosto dobbiamo essere semplici, umili e puri» (2Lf 45). E aggiunge: «beati i puri di cuore, poiché essi vedranno Dio (Mt 5,8). Veramente puri di cuore sono coloro che disdegnano le cose terrene e cercano le cose celesti, e non cessano mai di adorare e vedere il Signore Dio, vivo e vero, con cuore ed animo puro» (Am 16)..

. Il modello è sempre il Cristo pellegrino che si accompagna ai suoi discepoli .  Francesco insegna ai suoi a combattere la cupidigia degli occhi con la povertà, l’orgoglio della vita con l’umiltà e a vivere come pellegrini e stranieri . I frati sono i veri ebrei , i discendenti di Abramo nella fede. Essi riprendono    per proprio conto la storia di Israele secondo la carne: essi devono attraversare un deserto, il mondo, prima di arrivare alla terra promessa cioè il cielo . Con Gesù essi devono passare da questo mondo al Padre e lo possono fare soltanto superando il peccato con la penitenza della povertà, dell’umiltà e del distacco dal mondo.

La Pasqua, ovviamente,  era pure per San Francesco il passaggio dalla morte alla vita, dal peccato alla penitenza, dalla superficialità alla contemplazione. Una contemplazione che è rendimento di grazie a Dio per quanto ha operato in lui attraverso questo Mistero così grande, una contemplazione che si trasforma in lode: “…ti rendiamo grazie perché […] per la croce, il sangue e la morte di Lui ci hai voluti liberare e redimere” (Rnb XXIII, 5).

Fare Pasqua , ci suggerisce Francesco, significa passare nel mondo in povertà di spirito, ricchi cioè di quella beatitudine che - ce l'assicura Gesù - ci fa padroni del Regno. Fare Pasqua,   vuol dire saper accogliere con serenità gli eventi, accettando anche il dolore e la morte nella consapevolezza che essi non sono la meta definitiva.
Fare Pasqua vuol dire trasformare il dolore in amore,    saper gioire delle piccole cose, contentarsi di quel che si ha, senza lasciarsi ardere dalla gelosia e dall'invidia; vuol dire amare la propria persona così com'è, perché è con la nostra povertà che Dio vuol realizzare grandi cose. Francesco ha compiuto questo percorso, fino in fondo, e chiede a noi di fare altrettanto.


                                                                                                                                             Antonio Fasolo ofs










9. Una volta, nel giorno santo di Pasqua, siccome si trovava in un romitorio molto lontano dall'abitato e non c'era possibilità di andare a mendicare, memore di Colui che in quello stesso giorno apparve ai discepoli in cammino verso Emmaus, in figura di pellegrino, chiese l'elemosina, come pellegrino e povero, ai suoi stessi frati. Come l'ebbe ricevuta, li ammaestrò con santi discorsi a celebrare continuamente la Pasqua del Signore, cioè il passaggio da questo mondo al Padre, passando per il deserto del mondo in povertà di spirito, e come pellegrini e forestieri e come veri Ebrei.
( San Bonaventura, Legenda maior, VII, 9- FF. 1129 ).

domenica 8 febbraio 2015

FRATERNITA' : ISOLA DI MISERICORDIA - Piccola riflessione a margine del Messaggio di Papa Francesco per la Quaresima 2015.



Ancora un’altra quaresima, penserà qualcuno. Preghiera, elemosina, digiuno. I tempi sono cambiati e l’insofferenza verso i cosiddetti “ tempi forti “ della Chiesa coinvolge persino i suoi figli più devoti. Ancora un’altra quaresima che il mondo non capisce e relega a mero fenomeno di un  folclore religioso in via di auspicabile estinzione. Altri come il sottoscritto contano le quaresime vissute e si accorgono con sgomento di aver sprecato per ignavia preziosissimi momenti di grazia. Lo comprese bene frate Francesco, quando cominciò finalmente ad intendere le cose di Dio, e non si accontentava di farne una l’anno , ma tre, quattro e anche di più e sempre sembrava non gli bastassero  mai.
 Ci ricorda il Papa, di nuovo,  nel suo consueto  messaggio per la quaresima del  2015 che non è Dio a stancarsi di usare con noi misericordia, ma siamo noi che inspiegabilmente ci stanchiamo di essere amati da Lui. E mentre Dio Padre ha un cuore che batte per noi, noi invece stiamo bene, stiamo comodi, mangiamo e beviamo anche più del necessario, e così pieni di noi stessi non ci importa degli altri che sono nel bisogno. Abbiamo globalizzato anche l’egoismo e l’indifferenza verso Lui  e verso il prossimo.
 
 Per questo sempre abbiamo bisogno di rinnovamento, di qualcuno che ci ricordi che non possiamo continuare a vivere come se Dio non ci amasse e questo qualcuno, questa voce profetica è la voce della Chiesa che in mezzo a persecuzioni ed ostilità, continua a tenere aperta la porta della misericordia divina attraverso cui il Signore Gesù può proseguire, e passare per guarire le nostre ferite e alleviare le nostre sofferenze.
Viviamo chiusi in noi stessi, indifferenti rispetto al nostro dolore ed a quello del mondo. Solo l’amore di Dio ha spaccato la pietra che sigillava il sepolcro di Cristo. Egli continua, se glielo consentiamo, ad infrangere l’abbraccio mortale dei nostri sepolcri, quelli freddi e rigidi che non vedono e non sentono il grido dei poveri e degli umiliati della terra. “ Se un membro soffre, tutte le membra soffrono “. Spesso, come Pietro, ci opponiamo al Signore e non capiamo che a servire gli altri, riescono solo coloro che accettano di lasciarsi servire da Cristo. In quaresima non siamo chiamati a fare qualche fioretto, ma a farci servire da Cristo!  Non ha bisogno il Signore di essere servito dagli uomini, ma di servire noi, e noi di lasciarci trasformare dal suo esempio. “Ciò avviene quando ascoltiamo la Parola di Dio e quando riceviamo i sacramenti, in particolare l’Eucaristia. In essa diventiamo ciò che riceviamo: il corpo di Cristo.” In questa “ comunione di santi “ niente si possiede soltanto per sé, ma tutto è per tutti!
Un discorso questo che dalla chiesa universale va tradotto in concreto nella vita delle singole comunità. Perché paradossalmente è facile concepire grandi imprese umanitarie ed essere così miopi da  non accorgersi  poi del dolore del fratello che ci siede accanto, bisognoso di cure. Cosa possiamo fare ad esempio nelle nostre fraternità per vincere l’indifferenza ed aprire il cuore alle altrui necessità ? Il papa ci indica due vie : una che sale verso l’alto, la preghiera , quella in particolare che in cielo arriva al cospetto di Dio e coinvolge pure  la chiesa trionfante, i santi che hanno vinto la loro battaglia sulla terra e che ora in cielo possono intercedere per noi; il papa ricorda specialmente l’iniziativa 24 ore per il Signore, che si celebrerà  in tutta la Chiesa, anche a livello diocesano, nei giorni 13 e 14 marzo : un’altra  via è la missione, che si dispiega su questa terra e deve raggiungere ogni uomo , ogni creatura per la quale Cristo si è incarnato, è morto e risorto.
Altro gesto importante che ci fa vincere l’indifferenza è la carità. La quaresima da sempre è tempo propizio perché questa maturi e si sviluppi, perché la consapevolezza dei nostri limiti infranga l’illusione diabolica che ci fa credere di poter salvare noi stessi ed il mondo da soli.
“ Rendi il nostro Cuore simile al Tuo “ – conclude il Papa il suo messaggio con   una supplica tratta dalle Litanie al Sacro cuore di Gesù ,  e noi possiamo aggiungere : fa o Signore che anche noi lottiamo nella nostra trincea : trasforma la nostra comunità spesso rovinata da egoismi, particolarismi ed indifferenza ai bisogni del prossimo, in una  fraternità autenticamente amorevole, cellula viva della Chiesa universale, luogo di guarigione e di salvezza per tutti i feriti dalla vita, amorevole isola di misericordia.