13 Dicembre
Seconda Predica di Avvento 2013
1. Umiltà oggettiva e umiltà soggettiva
Ascoltiamo un episodio della vita di Francesco d’Assisi nell’incantevole lingua dei Fioretti:
Uno dì tornando santo Francesco dalla selva e dalla orazione, e sendo
allo uscire della selva, il detto frate Masseo volle provare sì
com’egli fusse umile, e fecieglisi incontra, e quasi proverbiando disse:
«Perché a te, perché a te, perché a te?». Santo Francesco risponde:
«Che è quello che tu vuoi dire?». Disse frate Masseo: «Dico, perché a te
tutto il mondo viene dirieto, e ogni persona pare che desideri di
vederti e d’udirti e d’ubbidirti? Tu non se’ bello uomo del corpo, tu
non se’ di grande scienza, tu non se’ nobile onde dunque a te che tutto
il mondo ti venga dietro?». Udendo questo santo Francesco, tutto
rallegrato in ispirito […], si rivolse a frate Masseo e disse: «Vuoi
sapere perché a me? vuoi sapere perché a me? vuoi sapere perché a me
tutto ’l mondo mi venga dietro? Questo io ho imperciò che gli occhi
santissimi di Dio non hanno veduto fra li peccatori nessuno più vile,
né più insufficiente, né più grande peccatore di me”
[1]
La domanda si pone oggi a più forte ragione che al tempo di Frate
Masseo. A quel tempo il mondo che andava dietro a Francesco era il mondo
limitato dell’Umbria e dell’Italia centrale; ora esso è letterarmente
tutto il mondo, spesso anche il mondo non credente o dei credenti di
altre religioni. La risposta del Poverello a Frate Masseo era sincera,
ma non era la vera. In realtà tutto il mondo ammira ed è affascinato
dalla figura di Francesco perché vede realizzati in lui quei valori ai
quali tutti gli uomini aspirano: la liberatà, la pace con se stessi e
con il creato, la gioia, la fratellanza universale.
Noi parleremo, in questa circostanza, di una dote di Francesco alla
quale il mondo non aspira affatto, o ben pochi lo fanno, ma che è invece
la radice da cui sono sbocciati in lui tutti quegli altri valori tanto
apprezzati: la sua umiltà. Secondo Dante Alighieri, tutta la gloria di
Francesco dipende dal suo “essersi fatto pusillo”
[2], cioè dalla sua umiltà.
Ma in che è consistita l’umiltà di san Francesco? In tutte le lingue,
attraverso cui è passata la Bibbia per giungere fino a noi, e cioè in
ebraico, in greco, in latino e in italiano, la parola “umiltà” possiede
due significati fondamentali: uno oggettivo che indica bassezza, piccolezza o miseria di fatto e uno soggettivo
che indica il sentimento e il riconoscimento che si ha della propria
piccolezza. Quest’ultimo è ciò che intendiamo per virtù dell’umiltà.
Quando nel Magnificat Maria dice: “Ha guardato l’umiltà (tapeinosis)
della sua serva”, intende umiltà nel senso oggettivo, non soggettivo!
Per questo molto opportunamente in diverse lingue, per esempio in
tedesco, il termine è tradotto con “piccolezza” (Niedrigkeit). Come si
può pensare, del resto, che Maria esalti la sua umiltà e attribuisca ad
essa la scelta di Dio, senza, con ciò stesso, distruggere l’umiltà di
Maria? Eppure a volte si è scritto incautamente che Maria non si
riconosce nessun’altra virtù se non quella dell’umiltà, come se, in tal
modo, si facesse un grande onore, e non invece un grande torto, a tale
virtù.
La virtù dell’umiltà ha uno statuto tutto speciale: ce l’ha chi non
crede di averla, non ce l’ha chi crede di averla. Solo Gesù può
dichiararsi “umile di cuore” ed esserlo veramente; questa, vedremo, è la
caratteristica unica e irripetibile dell’umiltà dell’uomo-Dio. Maria
non aveva, dunque, la
virtù dell’umiltà? Certo che l’aveva e in
grado sommo, ma questo lo sapeva solo Dio, lei no. Proprio questo,
infatti costituisce il pregio ineguagliabile della vera umiltà: che il
suo profumo è colto soltanto da Dio, non da chi lo emana. San Bernardo
scrive: “Il vero umile è colui che vuole essere ritenuto vile, non
proclamato umile”
[3]. L’umiltà di Francesco, ce lo ha mostrato il
fioretto di Frate Masseo, è proprio di questo tipo: egli non si
riteneva umile, ma si considerava vile.
2. L’umiltà come verità
L’umiltà di Francesco ha due fonti di illuminazione, una di natura
teologica e una di natura cristologica. Riflettiamo sulla prima. Nella
Bibbia troviamo atti di umiltà che non partono dall’uomo, dalla
considerazione della propria miseria o dal proprio peccato, ma hanno
come unica ragione Dio e la sua santità. Tale è l’esclamazione di Isaia
“Sono un uomo dalle labbra impure”, di fronte alla improvvisa
manifestazione della gloria e della santità di Dio nel tempio (Is 6, 5
s); tale è anche il grido di Pietro dopo la pesca miracolosa:
“Allontanati da me che sono un peccatore!” (Lc 5,8).
Siamo davanti all’umiltà essenziale, quella della creatura che prende
coscienza di sé al cospetto di Dio. Finché la persona si commisura con
se stesso, con gli altri o con la società, non avrà mai l’idea esatta
di ciò che è; gli manca la misura. “Che accento infinito, ha scritto
Kierkegaard, cade sull’io nel momento in cui ottiene come misura Dio!”
[4].
Francesco ha posseduto in modo eminente questa umiltà. Una massima che
ripeteva spesso era: “Quello che un uomo è davanti a Dio, quello è, e
nulla più”
[5].
I Fioretti raccontano che una notte, frate Leone volle spiare da
lontano cosa faceva Francesco durante la sua preghiera notturna nel
bosco della Verna e da lontano lo udiva mormorare a lungo alcune parole.
Il giorno dopo il santo lo chiamò e, dopo averlo amabilmente
rimproverato per aver contravvenuto al suo ordine, gli rivelò il
contenuto della sua preghiera:
“Sappi, frate pecorella di Gesù Cristo, che quando io dicea quelle
parole che tu udisti, allora mi erano mostrati all’anima mia due lumi,
l’uno della notizia e conoscimento di me medesimo, l’altro della notizia
e conoscimento del Creatore. Quando io dicea: Chi se’ tu, o dolcissimo
Iddio mio?, allora ero io in un lume di contemplazione, nel quale io
vedea l’abisso della infinita bontà e sapienza e potenza di Dio; e
quando io dicea: Che sono io?, io ero in lume di contemplazione, nel
quale io vedea il profondo lagrimoso della mia viltà e miseria?”
[6]
Era quello che chiedeva a Dio sant’Agostino e che considerava la somma di tutta la sapienza: “
Noverim me, noverim te. Che io conosca me e che io conosca te; che io conosca me per umiliarmi e che io conosca te per amarti”
[7].
L’episodio di frate Leone è certamente abbellito, come sempre nei
Fioretti, ma il contenuto corrisponde perfettamente all’idea che
Francesco aveva di sé e di Dio. Ne è prova l’inizio del Cantico delle
creature con la distanza infinita che pone tra Dio “altissimo,
onnipotente, bon Signore”, a cui è dovuta la lode, la gloria, l’onore e
la benedizione”, e il misero mortale che non è degno neppure di
“mentovare”, cioè pronunziare, il suo nome.
Altissimu, onnipotente, bon Signore,
Tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione.
Ad Te solo, Altissimo, se konfane,
et nullu homo ène dignu Te mentovare.
In questa luce, che ho chiamato teologica, l’umiltà ci appare
essenzialmente come verità. “Mi domandavo un giorno, scrive Santa Teresa
d’Avila, per quale motivo il Signore ama tanto l’umiltà e mi venne in
mente d’improvviso, senza alcuna mia riflessione, che ciò deve essere
perché egli è somma Verità e l’umiltà è verità”
[8].
E’ una luce che non umilia, ma al contrario da gioia immensa ed
esalta. Essere umili infatti non significa essere scontenti di sé e
neppure riconoscere la propria miseria, né, per certi versi, la propria
piccolezza. E’ guardare Dio prima che se stessi e misurare l’abisso che
separa il finito dall’infinito. Più ci si rende conto di questo, più si
diventa umili. Allora si comincia perfino a gioire del proprio nulla,
poiché è grazie ad esso che si può offrire a Dio un volto la cui
piccolezza e la cui miseria ha affascinato fin dall’eternità il cuore
della Trinità.
Una grande discepola del Poverello, che papa Francesco ha da poco
proclamato santa, Angela da Foligno, vicina a morire, esclamò: “O nulla
sconosciuto, o nulla sconosciuto! L’anima non può avere migliore visione
in questo mondo che contemplare il proprio nulla e abitare in esso come
nella cella di un carcere”
[9].C’è un segreto in questo
consiglio, una verità che si sperimenta provando. Si scopre allora che
esiste davvero questa cella e che vi si può entrare davvero ogni volta
che si vuole. Essa consiste nel quieto e tranquillo sentimento di essere
un nulla davanti a Dio, ma un nulla amato da lui!
Quando si è dentro la cella di questo carcere luminoso, non si vedono
più i difetti del prossimo, o si vedono in un’altra luce. Si capisce
che è possibile, con la grazia e con l’esercizio, realizzare ciò che
dice l’Apostolo e che sembra, a prima vista, eccessivo e cioè di
“considerare tutti gli altri superiori a sé” (cf Fil 2, 3), o almeno si
capisce come esso possa essere stato possibile ai santi.
Chiudersi in quel carcere è tutt’altro, dunque, che chiudersi in se
stessi; è, invece, aprirsi agli altri, all’essere, all’oggettività delle
cose. Il contrario di quello che hanno sempre pensato i nemici
dell’umiltà cristiana. È chiudersi all’egoismo, non nell’egoismo. È la
vittoria su uno dei mali che anche la moderna psicologia giudica
esiziale per la persona umana: il narcisismo. In quella cella, inoltre,
non penetra il nemico. Un giorno, Antonio il Grande ebbe una visione;
vide, in un attimo, tutti gli infiniti lacci del nemico spiegati per
terra e disse gemendo: “Chi potrà dunque evitare tutti questi lacci?” e
intese una voce rispondergli: “Antonio, l’umiltà!”
[10]. “Nulla, scrive l’autore dell’Imitazione di Cristo, riuscirà a far insuperbire colui che è saldamente fissato in Dio”
[11].
3. L’umiltà come servizio d’amore
Abbiamo parlato dell’umiltà come verità della creatura davanti a
Dio. Paradossalmente però la cosa che più riempie di stupore l’anima di
Francesco non è la grandezza di Dio, ma la sua umiltà. Nelle Laudi di Dio Altissimo
che si conservano scritte di suo pugno in Assisi, tra le perfezioni di
Dio -“Tu sei Santo. Tu sei Forte. Tu sei Trino e Uno. Tu sei Amore,
Carità. Tu sei Sapienza…”-, a un certo punto, Francesco ne inserisce una
insolita: “Tu sei umiltà!” Non è un titolo messo lì per sbaglio.
Francesco ha colto una verità profondissima su Dio che dovrebbe
riempire di stupore anche noi.
Dio è umiltà perché è amore. Di fronte alle creature umane, Dio si
trova sprovvisto di ogni capacità non soltanto costrittiva, ma anche
difensiva. Se gli esseri umani scelgono, come hanno fatto, di rifiutare
il suo amore, egli non può intervenire di autorità per imporsi a loro.
Non può fare altro che rispettare la libera scelta degli uomini. Si
potrà rigettarlo, eliminarlo: egli non si difenderà, lascerà fare. O
meglio, la sua maniera di difendersi e di difendere gli uomini contro il
loro stesso annientamento, sarà quella di amare ancora e sempre,
eternamente. L’amore crea per sua natura dipendenza e la dipendenza
l’umiltà. Così è anche, misteriosamente, in Dio.
L’amore fornisce dunque la chiave per capire l’umiltà di Dio: ci
vuole poca potenza per mettersi in mostra, ce ne vuole molta invece per
mettersi da parte, per cancellarsi. Dio è questa illimitata potenza di
nascondimento di sé e come tale si rivela nell’incarnazione. La
manifestazione visibile dell’umiltà di Dio si ha contemplando Cristo
che si mette in ginocchio davanti ai suoi discepoli per lavare loro i
piedi – ed erano, possiamo immaginarlo, piedi sporchi -, e ancor più,
quando, ridotto alla più radicale impotenza sulla croce, continua ad
amare, senza mai condannare.
Francesco ha colto questo nesso strettissimo tra l’umiltà di Dio e l’incarnazione. Ecco alcune sue infuocate parole:
“Ecco ogni giorno egli si umilia, come quando dalla sede regale
discese nel grembo della Vergine; ogni giorno egli stesso viene a noi in
apparenza umile; ogni giorno discende dal seno del Padre sull’altare
nelle mani del sacerdote
[12]”. “O umiltà sublime! O sublimità
umile, che il Signore dell’universo, Dio e Figlio di Dio, così si umili
da nascondersi, per la nostra salvezza, sotto poca apparenza di pane!
Guardate, fratelli, l’umiltà di Dio, ed aprite davanti a lui i vostri
cuori”
[13].
Abbiamo scoperto così il secondo movente dell’umiltà di Francesco:
l’esempio di Cristo. È lo stesso movente che Paolo indicava ai Filippesi
quando raccomandava loro di avere gli stessi sentimenti di Cristo Gesú
che “umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte”
(Fil 2, 5.8). Prima di Paolo, era stato Gesú in persona a invitare i
discepoli a imitare la sua umiltà: “Imparate da me che sono mite e umile
di cuore!” (Mt 11, 29).
In che cosa, ci si potrebbe domandare, Gesù ci dice di imitare la sua
umiltà? In che cosa è stato umile Gesù? Scorrendo i Vangeli, non
troviamo mai la benché minima ammissione di colpa sulla bocca di Gesù,
né quando conversa con gli uomini, né quando conversa con il Padre.
Questa – detto per inciso – è una delle prove più nascoste, ma anche
delle più convincenti, della divinità di Cristo e della assoluta unicità
della sua coscienza. In nessun santo, in nessun grande della storia e
in nessun fondatore di religione, si riscontra una tale coscienza di
innocenza.
Tutti riconoscono, più o meno, di aver commesso qualche errore e di
avere qualcosa da farsi perdonare, almeno da Dio. Gandhi, per esempio,
aveva una coscienza acutissima di avere, in talune occasioni, preso
delle posizioni errate; aveva anche lui i suoi rimorsi. Gesù mai. Egli
può dire rivolto ai suoi avversari: “Chi di voi può convincermi di
peccato?” (Gv 8, 46). Gesù proclama di essere “Maestro e Signore” (cf Gv
13, 13), di essere più di Abramo, di Mosè, di Giona, di Salomone.
Dov’è, dunque, l’umiltà di Gesù, per poter dire: “Imparate da me che
sono umile”?
Qui scopriamo una cosa importante. L’umiltà non consiste principalmente nell’essere piccoli, perché si può essere piccoli, senza essere umili; non consiste principalmente nel sentirsi piccoli,
perché uno può sentirsi piccolo ed esserlo realmente e questa sarebbe
oggettività, non ancora umiltà; senza contare che il sentirsi piccoli e
insignificanti può nascere anche da un complesso di inferiorità e
portare al ripiegamento su di sé e alla disperazione, anziché
all’umiltà. Dunque l’umiltà, per sé, nel grado più perfetto, non è
nell’essere piccoli, non è nel sentirsi piccoli, o proclamarsi piccoli. È
nel farsi piccoli, e non per qualche necessità o utilità personale, ma per amore, per “innalzare” gli altri.
Così è stata l’umiltà di Gesù; egli si è fatto tanto piccolo da
“annullarsi” addirittura per noi. L’umiltà di Gesù è l’umiltà che scende
da Dio e che ha il suo modello supremo in Dio, non nell’uomo. Nella
posizione in cui si trova, Dio non può “elevarsi”; nulla esiste sopra
di lui. Se Dio esce da se stesso e fa qualcosa al di fuori della
Trinità, questo non potrà essere che un abbassarsi e un farsi piccolo;
non potrà essere, in altre parole, che umiltà, o, come dicevano alcuni
Padri greci, synkatabasis, cioè condiscendenza.
San Francesco fa di “sorella acqua” il simbolo dell’umiltà,
definendola “utile, umile, preziosa e casta”. L’acqua infatti mai si
“innalza”, mai “ascende”, ma sempre “discende”, fino a che non ha
raggiunto il punto più basso. Il vapore sale ed è perciò il simbolo
tradizionale dell’orgoglio e della vanità; l’acqua scende ed è perciò
simbolo dell’umiltà.
Ora sappiamo cosa vuol dire la parola di Gesù: “Imparate da me che
sono umile”. È un invito a farci piccoli per amore, a lavare, come lui, i
piedi ai fratelli. In Gesù vediamo, però, anche la serietà di questa
scelta. Non si tratta infatti di scendere e farsi piccolo di tanto in
tanto, come un re che, nella sua generosità, ogni tanto, si degna di
scendere tra il popolo e magari anche di servirlo in qualcosa. Gesù si
fece “piccolo”, come “si fece carne”, cioè stabilmente, fino in fondo.
Scelse di appartenere alla categoria dei piccoli e degli umili.
Questo volto nuovo dell’umiltà si riassume in una parola: servizio.
Un giorno – si legge nel Vangelo – i discepoli avevano discusso tra di
loro chi fosse “il più grande”; allora Gesù, “sedutosi” – come per dare
maggiore solennità alla lezione che stava per impartire –, chiamò a sé i
Dodici e disse loro:“Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di
tutti e il servo di tutti” (Mc 9, 35). Chi vuol essere il
“primo” sia l’“ultimo”, cioè scenda, si abbassi. Ma poi spiega subito
cosa intende per ultimo: sia il “servo” di tutti. L’umiltà proclamata da
Gesù è dunque servizio. Nel Vangelo di Matteo, questa lezione di Gesù
viene corroborata con un esempio: “Appunto, come il Figlio dell’uomo che
non è venuto per essere servito ma per servire” (Mt 20, 28).
4. Una Chiesa umile
Qualche considerazione pratica sulla virtù dell’umiltà, presa in
tutte le sue manifestazioni, e cioè sia nei confronti di Dio che nei
confronti degli uomini. Non ci dobbiamo illudere di aver raggiunto
l’umiltà solo perché la parola di Dio ci ha condotti a scoprire il
nostro nulla e ci ha mostrato che essa deve tradursi in servizio
fraterno. A che punto siamo giunti in fatto di umiltà, si vede quando
l’iniziativa passa da noi agli altri, cioè quando non siamo più noi a
riconoscere i nostri difetti e torti, ma sono gli altri a farlo; quando
non siamo solo capaci di dirci la verità, ma anche di lasciarcela dire,
di buon grado, da altri. Prima di riconoscersi davanti a frate Matteo
come il più vile degli uomini, Francesco aveva accettato, di buon grado e
per molto tempo, di essere deriso, ritenuto da amici, parenti e
dall’intero paese di Assisi un ingrato, un esaltato, uno che non avrebbe
combinato mai nulla di buono nella vita.
A che punto siamo nella lotta contro l’orgoglio, si vede, in altre
parole, da come reagiamo, esternamente o internamente, quando siamo
contraddetti, corretti, criticati o lasciati da parte. Pretendere di
uccidere il proprio orgoglio colpendolo da soli, senza che nessuno
intervenga dal di fuori, è come usare il proprio braccio per punire se
stesso: non ci si farà mai veramente male. È come se un medico volesse
asportarsi da solo un tumore.
Quando io cerco di ricevere gloria da un uomo per qualcosa che dico o
che faccio, è quasi certo che quello che mi sta davanti cerca di
ricevere gloria da me per come ascolta e per come risponde. E così
avviene che ognuno cerca la propria gloria e nessuno la ottiene e se,
per caso, la ottiene non è che “vanagloria”, cioè gloria vuota,
destinata a dissolversi in fumo con la morte. Ma l’effetto è ugualmente
terribile; Gesù attribuiva alla ricerca della propria gloria addirittura
l’impossibilità di credere. Diceva ai farisei: “Come potete credere voi
che prendete gloria gli uni dagli altri e non cercate la gloria che
viene da Dio solo?” (Gv 5, 44).
Quando ci ritroviamo invischiati in pensieri e aspirazioni di gloria
umana, gettiamo nella mischia di tali pensieri, come una torcia ardente,
la parola che Gesù stesso usò e che ha lasciato a noi: “Io non cerco la
mia gloria!” (Gv 8, 50). Quella dell’umiltà è una lotta che dura tutta
la vita e si estende a ogni aspetto di essa. L’orgoglio è capace di
nutrirsi sia del male che del bene; anzi, a differenza di ciò che
avviene per ogni altro vizio, il bene, non il male, è il terreno di
coltura preferito di questo terribile “virus”. Scrive argutamente il
filosofo Pascal:
“La vanità ha così profonde radici nel cuore dell’uomo che un
soldato, un servo di milizie, un cuoco, un facchino, si vanta e pretende
di avere i suoi ammiratori e gli stessi filosofi ne vogliono. E coloro
che scrivono contro la vanagloria aspirano al vanto di aver scritto
bene, e coloro che li leggono, al vanto di averli letti; e io, che
scrivo questo, nutro forse lo stesso desiderio; e coloro che mi
leggeranno forse anche”
[14].
Perché l’uomo “non monti in superbia”, Dio di solito lo fissa al
suolo con una specie di àncora; gli mette accanto, come a Paolo, un
“messaggero di Satana che lo schiaffeggia”, “una spina nella carne” (2
Cor 12,7). Non sappiamo cosa fosse esattamente per l’Apostolo questa
“spina nella carne”, ma sappiamo bene cos’è per noi! Ognuno che vuole
seguire il Signore e servire la Chiesa ce l’ha. Sono situazioni
umilianti dalle quali si è richiamati costantemente, talvolta notte e
giorno, alla dura realtà di quello che siamo. Può essere un difetto, una
malattia, una debolezza, un’impotenza, che il Signore ci lascia,
nonostante tutte le suppliche; una tentazione persistente e umiliante,
forse proprio una tentazione di superbia; una persona con cui si è
costretti a vivere e che, nonostante la rettitudine di entrambe le
parti, ha il potere di mettere a nudo la nostra fragilità, di demolire
la nostra presunzione e farci perdere la calma.
L’umiltà non è però solo una virtù privata. C’è un’umiltà che deve
risplendere nella Chiesa come istituzione e popolo di Dio. Se Dio è
umiltà, anche la Chiesa deve essere umiltà; se Cristo ha servito, anche
la Chiesa deve servire, e servire per amore. Per troppo tempo la Chiesa,
nel suo insieme, ha rappresentato davanti al mondo la verità di Cristo, ma forse non abbastanza l’umiltà
di Cristo. Eppure è con essa, meglio che con ogni apologetica, che si
placano le ostilità e i pregiudizi nei suoi confronti e si spiana la
via all’accoglimento del Vangelo.
C’è un episodio dei Promessi Sposi di Manzoni che contiene una
profonda verità psicologica ed evangelica. Fra Cristoforo, terminato il
noviziato, decide di chiedere pubblicamente perdono ai parenti dell’uomo
che, prima di farsi frate, ha ucciso in duello. La famiglia si schiera
in fila, formando una specie di forche caudine, in modo che il gesto
risulti il più umiliante possibile per il frate e di più grande
soddisfazione per l’orgoglio della famiglia. Ma quando vedono il giovane
frate procedere a testa china, inginocchiarsi davanti al fratello
dell’ucciso e chiedere perdono, cade la boria, sono loro a sentirsi
confusi e a chiedere scusa, finché alla fine tutti gli si stringono
intorno per baciargli la mano e raccomandarsi alle sue preghiere
[15]. Sono i miracoli dell’umiltà.
Nel profeta Sofonia Dio dice: “Lascerò in mezzo a te un popolo umile
e povero che confiderà nel nome del Signore” (Sof 3,12). Questa parola è
ancora attuale e forse anche da essa dipenderà il successo
dell’evangelizzazione nella quale la Chiesa è impegnata.
Adesso sono io che, prima di terminare, devo ricordare a me stesso
una massima cara a san Francesco. Egli era solito ripetere: “Carlo
imperatore, Orlando, Oliviero, tutti i paladini riportarono una gloriosa
e memorabile vittoria…Ma ci sono ora molti che, con la sola narrazione
delle loro gesta, vogliono ricevere onore e gloria dagli altri uomini”
[16]. Usava questo esempio per dire che i santi hanno praticato le virtù e altri cercano gloria col solo raccontarle
[17].
Per non essere anch’io del loro numero, mi sforzo di mettere in
pratica il consiglio che un antico Padre del deserto, Isacco di Ninive,
dava a chi è costretto dal dovere a parlare di cose spirituali, alle
quali non è ancora giunto con la sua vita: “Parlane, diceva, come uno
che appartiene alla classe dei discepoli e non con autorità, dopo aver
umiliato la tua anima ed esserti fatto più piccolo di ogni tuo
ascoltatore”. Con questo spirito, Santo Padre, Venerabili Padri,
fratelli e sorelle, ho osato parlare a voi di umiltà.
*
NOTE
[3] S. Bernardo di Chiaravalle,
Semoni sul Cantico, XVI, 10 (PL 183,853).
[4] S. Kierkegaard,
La malattia mortale,II, cap.1. in
Opere, a cura di C. Fabro, Sansoni, Firenze 1972, pp.662 s.
[5] Ammonizioni, XIX (FF 169); cf. anche S. Bonaventura,
Legenda maggiore, VI,1 (FF 1103).
[6] Considerazioni delle Sacre Stimmate, III (FF 1916).
[7] S. Agostino,
Soliloqui,I,1,3; II, 1, 1 (PL 32, 870.885).
[8] S. Teresa d’Avila,
Castello Interiore, VI dim., cap. 10.
[9] Il libro della B. Angela da Foligno, Quaracchi, 1985, p. 737.
[10] Apophtegmata Patrum,
Antonio 7: PG 65, 77.
[11] Imitazione di Cristo, II, cap. 10.
[12] Ammonizioni,I (FF 144).e
[13] Lettera a tutto l’Ordine (FF 221)
[14] B. Pascal,
Pensieri, n. 150 Br.
[15] A. Manzoni,
I Promessi Sposi, cap. IV.
[16] Ammonizioni VI (FF 155)
[17] Celano,
Vita seconda, 72 (FF 1626)