Prima Predica di Avvento 2013
Santo Padre, Venerabili Padri, fratelli e sorelle, l’intento di
queste tre meditazioni di Avvento è di prepararci al Natale in compagnia
di Francesco d’Assisi. Di lui, in questa prima meditazione, vorrei
mettere in luce la natura del suo ritorno al Vangelo. Il teologo Yves
Congar, nel suo studio su “Vera e falsa riforma nella Chiesa” vede in
Francesco l’esempio più chiaro di riforma della Chiesa per via di
santità[1]. Vorremmo cercare di capire in che è consistita la sua
riforma per via di santità e cosa il suo esempio comporta in ogni epoca
della Chiesa, compresa la nostra.
1. La conversione di Francesco
Per capire qualcosa dell’avventura di Francesco bisogna partire dalla
sua conversione. Di tale evento esistono, nelle fonti, diverse
descrizioni con notevoli differenze tra di loro. Per fortuna abbiamo una
fonte assolutamente affidabile che ci dispensa dallo scegliere tra le
varie versioni. Abbiamo la testimonianza di Francesco stesso nel suo
Testamento, la sua ipsissima vox, come si dice delle parole sicuramente di Cristo riportate nel Vangelo. Dice:
Il Signore dette a me, frate Francesco, d’incominciare a fare
penitenza così: quando ero nei peccati mi sembrava cosa troppo amara
vedere i lebbrosi e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con
essi misericordia. E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro
mi fu cambiato in dolcezza d’animo e di corpo. E di poi, stetti un poco e
uscii dal mondo.
È su questo testo che giustamente si basano gli storici, ma con un
limite per loro invalicabile. Gli storici, anche i meglio intenzionati e
più rispettosi della peculiarità della vicenda di Francesco, come è
stato, tra gli italiani Raoul Manselli, non riescono a cogliere il
perché ultimo del suo radicale cambiamento. Si arrestano –e giustamente
per rispetto al loro metodo – sulla soglia, parlando di un “segreto di
Francesco”, destinato a rimanere tale per sempre.
Quello che si riesce a costatare, dicono gli storici, è la decisione
di Francesco di cambiare il suo stato sociale. Da appartenente alla
classe agiata, che contava nella città per nobiltà o ricchezza, egli ha
scelto di collocarsi all’estremità opposta, condividendo la vita degli
ultimi, di quelli che non contavano nulla, i cosiddetti “minori”,
afflitti da ogni genere di povertà.
Gli storici insistono giustamente sul fatto che Francesco,
all’inizio, non ha scelto la povertà e tanto meno il pauperismo; ha
scelto i poveri! Il cambiamento è motivato più dal comandamento; “Ama il
prossimo tuo come te stesso”, che non dal consiglio: “Se vuoi essere
perfetto, va’, vendi tutto quello che hai e dallo ai poveri, poi vieni e
seguimi”. Era la compassione per la povera gente, più che la ricerca
della propria perfezione che lo muoveva, la carità più che la povertà.
Tutto questo è vero, ma non tocca ancora il fondo del problema. È
l’effetto del cambiamento, non la sua causa. La scelta vera è molto più
radicale: non si trattò di scegliere tra ricchezza e povertà, né tra
ricchi e poveri, tra l’appartenenza a una classe piuttosto che a
un’altra, ma di scegliere tra se stesso e Dio, tra salvare la propria
vita o perderla per il Vangelo.
Ci sono stati alcuni (per esempio, in tempi a noi vicini, Simone
Weil) che sono arrivati a Cristo partendo dall’amore per i poveri e vi
sono stati altri che sono arrivati ai poveri partendo dall’amore per
Cristo. Francesco appartiene a questi secondi. Il motivo profondo della
sua conversione non è di natura sociale, ma evangelica. Gesú ne aveva
formulato la legge una volta per tutte con una delle frasi più solenni e
più sicuramente autentiche del Vangelo:
“Se uno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua
croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la sua vita, la perderà; ma
chi avrà perduto la sua vita per amor mio, la troverà” (Mt 14, 24-25).
Francesco, baciando il lebbroso, ha rinnegato se stesso in quello che
era più “amaro” e ripugnante alla sua natura. Ha fatto violenza a se
stesso. Il particolare non è sfuggito al suo primo biografo che descrive
così l’episodio:
“Un giorno gli si parò innanzi un lebbroso: fece violenza a se stesso, gli si avvicinò e lo baciò. Da quel momento decise di disprezzarsi sempre più, finché per la misericordia del Redentore ottenne piena vittoria”[2].
Francesco non andò di sua spontanea volontà dai lebbrosi, mosso da
umana e religiosa compassione. “Il Signore, scrive, mi condusse tra
loro”. È su questo piccolo dettaglio che gli storici non sanno –né
potrebbero – dare un giudizio, ed è invece all’origine di tutto. Gesù
aveva preparato il suo cuore in modo che la sua libertà, al momento
giusto, rispondesse alla grazia. A questo erano serviti il sogno di
Spoleto e la domanda se preferiva servire il servo o il padrone, la
malattia, la prigionia a Perugia e quell’inquietudine strana che non gli
permetteva più di trovare gioia nei divertimenti e gli faceva ricercare
luoghi solitari.
Pur senza pensare che si trattasse di Gesú in persona sotto le
sembianze di un lebbroso (come più tardi si cercò di fare, ripensando al
caso analogo della vita di san Martino di Tours[3]), in quel
momento il lebbroso per Francesco rappresentava a tutti gli effetti
Gesú. Non aveva egli detto: “L’avete fatto a me”? In quel momento ha
scelto tra se e Gesú. La conversione di Francesco è della stessa natura
di quella di Paolo. Per Paolo, a un certo punto, quello che prima era
stato un “guadagno” cambiò segno e divenne “perdita”, “a motivo di
Cristo” (Fil 3, 5 ss); per Francesco quello che era stato amaro si
convertì in dolcezza, anche qui “a motivo di Cristo”. Dopo questo
momento, entrambi possono dire: “Non sono più io che vivo, Cristo vive
in me”.
Tutto questo ci obbliga a correggere una certa immagine di Francesco
resa popolare dalla letteratura posteriore e accolta da Dante nella
Divina Commedia. La famosa metafora delle nozze di Francesco con Madonna
Povertà che ha lasciato tracce profonde nell’arte e nella poesia
francescane può essere deviante. Non ci si innamora di una virtù, fosse
pure la povertà; ci si innamora di una persona. Le nozze di Francesco
sono state, come quelle di altri mistici, uno sposalizio con Cristo.
Ai compagni che gli chiedevano se intendeva prendere moglie,
vedendolo una sera stranamente assente e luminoso in volto, il giovane
Francesco rispose: “Prenderò la sposa più nobile e bella che abbiate mai
vista”. Questa risposta viene di solito male interpretata. Dal contesto
appare chiaro che la sposa non è la povertà, ma il tesoro nascosto e la
perla preziosa, cioè Cristo. “Sposa, commenta il Celano che riferisce
l’episodio, è la vera religione che egli abbracciò; e il regno dei cieli
è il tesoro nascosto che egli cercò”[4].
Francesco non sposò la povertà e neppure i poveri; sposò Cristo e fu
per amor suo che sposò, per così dire “in seconde nozze” Madonna
povertà. Così sarà sempre nella santità cristiana. Alla base dell’amore
per la povertà e per i poveri, o vi è l’amore per Cristo, oppure i
poveri saranno in un modo o nell’altro strumentalizzati e la povertà
diventerà facilmente un fatto polemico contro la Chiesa, o una
ostentazione di maggiore perfezione rispetto ad altri nella Chiesa, come
avvenne, purtroppo, anche tra alcuni dei seguaci del Poverello.
Nell’uno e nell’altro caso, si fa della povertà la peggiore forma di
ricchezza, quella della propria giustizia.
2. Francesco e la riforma della Chiesa
Come avvenne che da un evento così intimo e personale come fu la
conversione del giovane Francesco, prese avvio un movimento che cambiò a
suo tempo il volto della Chiesa e ha inciso così fortemente nella
storia, fino ai nostri giorni?
Bisogna dare uno sguardo alla situazione del tempo. All’epoca di
Francesco la riforma della Chiesa era un’esigenza avvertita più o meno
consapevolmente da tutti. Il corpo della Chiesa viveva tensioni e
lacerazioni profonde. Da una parte c’era la Chiesa istituzionale –papa,
vescovi, alto clero- logorata dai suoi perenni conflitti e dalle sue
troppo strette alleanze con l’impero. Una Chiesa avvertita come lontana,
impegnata in vicende troppo al di sopra degli interessi della gente.
Venivano poi i grandi ordini religiosi, spesso fiorenti per cultura e
spiritualità dopo le varie riforme del secolo XI, tra qui quella
Cistercense, ma fatalmente identificati con i grandi proprietari
terrieri, i feudatari del tempo, vicini e nello stesso tempo remoti
anch’essi, per problemi e tenore di vita, dal popolo minuto.
Dalla parte opposta c’era una società che dalle campagne cominciava a
emigrare verso le città in cerca di maggiore libertà dalle varie
servitù. Questa parte della società identificava la Chiesa con le classi
dominanti da cui sentiva il bisogno di affrancarsi. Perciò si schierava
volentieri con quelli che la contraddicevano e la combattevano:
eretici, gruppi radicali e pauperistici, mentre simpatizzava con il
basso clero spesso non all’altezza spirituale dei prelati, ma più vicino
al popolo.
C’erano dunque forti tensioni che ognuno cercava di sfruttare a
proprio vantaggio. La Gerarchia cercava di rispondere a queste tensioni
migliorando la propria organizzazione e reprimendo gli abusi, sia al suo
interno (lotta alla simonia e al concubinato dei preti) sia all’esterno
nella società. I gruppi ostili cercavano invece di fare esplodere le
tensioni, radicalizzando il contrasto con la Gerarchia dando origine a
movimenti più o meno scismatici. Tutti inalberavano contro la Chiesa
l’ideale della povertà e semplicità evangelica facendo di esso un’arma
polemica, più che un ideale spirituale da vivere in umiltà, arrivando a
mettere in discussione anche il ministero della Chiesa, il sacerdozio e
il papato.
Noi siamo abituati a vedere Francesco come l’uomo provvidenziale che
coglie queste istanze popolari di rinnovamento, le disinnesca da ogni
carica polemica e le riporta o le attua nella Chiesa in profonda
comunione e sottomissione ad essa. Francesco dunque come una specie di
mediatore tra gli eretici ribelli e la Chiesa istituzionale. In un noto
manuale di storia della Chiesa così è presentata la sua missione:
“Siccome la ricchezza e la potenza della Chiesa apparivano spesso
come una fonte di gravi mali e gli eretici del tempo ne traevano
argomento per le principali accuse contro di essa, in alcune anime pie
si destò il nobile desiderio di ripristinare la vita povera di Gesù e
della Chiesa primitiva, per poter così più efficacemente influire sul
popolo con la parola e l’esempio” [5].
Tra queste anime viene collocato naturalmente in primo luogo, insieme
con san Domenico, Francesco d’Assisi. Lo storico protestante Paul
Sabatier, pur tanto benemerito degli studi francescani, ha reso quasi
canonica tra gli storici, e non solo tra quelli laici e protestanti, la
tesi secondo cui il cardinale Ugolino (il futuro Gregorio IX) avrebbe
inteso catturare Francesco per la Curia, addomesticando la carica
critica e rivoluzionaria del suo movimento. In pratica è il tentativo di
fare di Francesco, un precursore di Lutero, cioè un riformatore per via
di critica, anziché di santità.
Non so se questa volontà di strumentalizzarlo si possa attribuire a
qualcuno dei grandi protettori e amici di Francesco. Pare difficile
attribuirla al card. Ugolino e ancora meno a Innocenzo III, di cui è
nota l’azione riformatrice e l’appoggio dato a varie forme nuove di vita
spirituale sorte al suo tempo, compresi appunto i frati minori, i
domenicani, gli umiliati milanesi. Una cosa, in ogni caso, è
assolutamente certa: quell’intenzione non ha mai sfiorato la mente di
Francesco. Egli non pensò mai di essere chiamato a riformare la Chiesa.
Bisogna stare attenti a non tirare conclusioni sbagliate dalle famose
parole del Crocifisso di San Damiano “Va’, Francesco e ripara la mia
Chiesa che, come vedi, va in rovina”. Le fonti stesse ci assicurano che
egli intese quelle parole nel senso assai modesto di dover riparare
materialmente la chiesetta di San Damiano. Furono i discepoli e i
biografi che interpretarono – e, bisogna dire, non a torto – quelle
parole come riferite alla Chiesa istituzione e non solo alla Chiesa
edificio. Lui rimase sempre alla sua interpretazione letterale e infatti
continuò a riparare altre chiesette dei dintorni di Assisi che erano in
rovina.
Anche il sogno in cui Innocenzo III avrebbe visto il Poverello
sostenere con la sua spalla la Chiesa cadente del Laterano non dice
nulla di più. Supposto che il fatto sia storico (un episodio analogo
viene infatti narrato anche a proposito di San Domenico), il sogno fu
del papa, non di Francesco! Egli non si è mai visto come lo vediamo noi
oggi nell’affresco di Giotto. Questo significa essere riformatore per
via di santità: esserlo, senza saperlo!
3. Francesco e il ritorno al Vangelo
Se non ha voluto essere un riformatore, cosa allora ha voluto essere e
fare Francesco? Anche su questo abbiamo la fortuna di avere la
testimonianza diretta del Santo nel suo Testamento:
“E dopo che il Signore mi donò dei frati, nessuno mi
mostrava che cosa dovessi fare; ma lo stesso Altissimo mi rivelò che
dovevo vivere secondo la forma del santo Vangelo. Ed io con poche
parole e semplicemente lo feci scrivere, e il signor Papa me lo
confermò”.
Allude al momento in cui, durante una Messa, ascoltò il brano di
vangelo dove Gesù invia i suoi discepoli dicendo: “Li mandò ad
annunciare il regno di Dio e a guarire i malati. E disse loro: «Non
prendete nulla per il viaggio: né bastone, né sacca, né pane, né denaro,
e non abbiate tunica di ricambio” (Lc 9, 2-3)[6]. Fu una
rivelazione folgorante di quelle che orientano un’intera vita. Da quel
giorno gli fu chiara la sua missione: un ritorno semplice e radicale al
vangelo reale, quello vissuto e predicato da Gesù. Ripristinare nel
mondo la forma e lo stile di vita di Gesù e degli apostoli descritto nei
vangeli. Scrivendo la Regola per i suoi frati comincerà così:
“La regola e la vita dei frati minori è questa, cioè osservare il santo Vangelo del Signore nostro Gesù Cristo”.
Francesco non teorizzò questa sua scoperta, facendone il programma
per la riforma della Chiesa. Egli realizzò in sé la riforma e così
indicò tacitamente alla Chiesa l’unica via per uscire dalla crisi:
riaccostarsi al vangelo, riaccostarsi agli uomini e in particolare agli
umili de ai poveri.
Questo ritorno al Vangelo si riflette anzitutto nella predicazione di
Francesco. È sorprendente, ma tutti lo hanno notato: il Poverello parla
quasi sempre di “fare penitenza”. Da allora in poi, narra il Celano,
con grande fervore ed esultanza, egli cominciò a predicare la penitenza,
edificando tutti con la semplicità della sua parola e la magnificenza
del suo cuore. Dovunque andava, Francesco diceva, raccomandava,
supplicava che facessero penitenza[7].
Che cosa intendeva Francesco con questa parola che gli stava tanto a
cuore? A questo proposito siamo caduti (almeno io sono caduto per molto
tempo) in errore. Abbiamo ridotto il messaggio di Francesco a una
semplice esortazione morale, a un battersi il petto, affliggersi e
mortificarsi per espiare i peccati, mentre esso ha tutta la novità e il
l’ampio respiro del vangelo di Cristo. Francesco non esortava a fare
“penitenze”, ma a fare “penitenza” (al singolare!) che, vedremo, è
tutt’un’altra cosa.
Il Poverello, salvi i pochi casi che conosciamo, scriveva in latino. E
cosa troviamo nel testo latino, del Testamento, quando scrive: “Il
Signore diede a me, frate Francesco, così di cominciare a fare
penitenza”? Troviamo l’espressione “poenitentiam agere”. Egli,
si sa, amava esprimersi con le parole stesse di Gesù. E quella parola –
fare penitenza - è la parola con cui Gesù cominciò a predicare e che
ripeteva in ogni città e villaggio dove si recava:
“Dopo che Giovanni fu messo in prigione, Gesù si recò in Galilea,
predicando il vangelo di Dio e dicendo: Il tempo è compiuto e il regno
di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo” (Mc 1,15).
La parola che oggi si traduce con “convertitevi” o “pentitevi”, nel testo della Volgata usato dal Poverello, suonava “poenitemini” e in Atti 2, 37 ancora più letteralmente “poenitentiam agite”,
fate penitenza. Francesco non ha fatto altro che rilanciare il grande
appello alla conversione con cui si apre la predicazione di Gesú nel
Vangelo e quella degli apostoli il giorno di Pentecoste.
Francesco fece a suo tempo quello che al tempo del Concilio Vaticano
II si intendeva con il motto: “abbattere i bastioni”: rompere
l’isolamento della Chiesa, riportarla a contatto con la gente. Uno dei
fattori di oscuramento del vangelo era la trasformazione dell’autorità
intesa come servizio, in autorità intesa come potere che aveva prodotto
infiniti conflitti dentro e fuori la Chiesa. Francesco, per conto suo,
risolve il problema in senso evangelico. Nel suo Ordine, novità
assoluta, i superiori si chiameranno ministri, cioè servi, e tutti gli
altri frati, cioè fratelli.
Un altro muro di separazione tra la Chiesa e il popolo era la scienza
e la cultura di cui il clero e i monaci avevano in pratica il
monopolio. Francesco lo sa e perciò prende la posizione drastica che
sappiamo su questo punto. Egli non ce l’ha con la scienza-conoscenza, ma
con la scienza-potere; quella che privilegia chi sa leggere su chi non
sa leggere e gli permette di comandare altezzosamente al fratello:
“Portami il breviario!”. Durante il famoso capitolo delle stuoie ad
alcuni suoi frati che volevano spingerlo ad adeguarsi all’atteggiamento
degli “ordini” colti del tempo, rispose con parole di fuoco che
lasciarono, si legge, i frati pervasi di timore:
«Fratelli, fratelli miei, Dio mi ha chiamato a camminare la via della
semplicità e me l’ha mostrata. Non voglio quindi che mi nominiate altre
Regole, né quella di sant’Agostino, né quella di san Bernardo o di san
Benedetto. Il Signore mi ha rivelato essere suo volere che io fossi un
pazzo nel mondo: questa è la scienza alla quale Dio vuole che ci
dedichiamo! Egli vi confonderà per mezzo della vostra stessa scienza e
sapienza”[8].
Sempre lo stesso coerente atteggiamento. Egli vuole per sé e i suoi
frati la più rigida povertà, ma, nella Regola, li esorta a “non
disprezzare e a non giudicare gli uomini che vedono vestiti di abiti
molli e colorati ed usare cibi e bevande delicate, ma piuttosto ciascuno
giudichi e disprezzi se stesso”[9]. Sceglie di essere un
illetterato, ma non condanna la scienza. Una volta assicurato che la
scienza non estingua “lo spirito della santa orazione e devozione”, sarà
lui stesso a permettere a frate Antonio di dedicarsi all’insegnamento
della teologia e san Bonaventura non crederà di tradire lo spirito del
fondatore, aprendo l’ordine agli studi nelle grandi università.
Yves Congar vede in ciò una delle condizioni essenziali della “vera
riforma” nella Chiesa, la riforma, cioè, che rimane tale e non si
trasforma in scisma: vale a dire la capacità di non assolutizzare la
propria intuizione, ma rimanere solidale con il tutto che è la Chiesa[10]. La convinzione, dice papa Francesco, nella sua recente Esortazione apostolica Evangelii gaudium, che “il tutto è superiore alla parte”.
4. Come imitare Francesco
Che cosa dice a noi oggi l’esperienza di Francesco? Che cosa
possiamo imitare, di lui, tutti e subito? Sia quelli che Dio chiama a
riformare la Chiesa per via di santità, sia quelli che si sentono
chiamati a rinnovarla per via di critica, sia quelli che egli stesso
chiama a riformarla per via dell’ufficio che ricoprono? La stessa cosa
da cui è cominciata l’avventura spirituale di Francesco: la sua
conversione dall’io a Dio, il suo rinnegamento di sé. È così che
nascono i veri riformatori, quelli che cambiano davvero qualcosa nella
Chiesa. I morti a se stessi. Meglio, quelli che decidono
seriamente di morire a se stessi, perché si tratta di un’impresa che
dura tutta la vita e anche oltre, se, come diceva scherzosamente santa
Teresa d’Avila, il nostro amor proprio muore venti minuti dopo di noi.
Diceva un santo monaco ortodosso, Silvano del Monte Athos: “Per
essere veramente liberi, bisogna cominciare a legare se stessi”. Uomini
come questi sono liberi della libertà dello Spirito; niente li ferma e
niente li spaventa più. Diventano riformatori per via di santità, e non
solo per via di ufficio.
Ma che significa la proposta di Gesú di rinnegare se stessi? È essa
ancora proponibile a un mondo che parla solo di autorealizzazione,
autoaffermazione? Il rinnegamento non è mai fine a se stesso, né un
ideale in sé. La cosa più importante è quella positiva: Se uno vuol venire dietro di me; è
il seguire Cristo, possedere Cristo. Dire no a se stessi è il mezzo;
dire sì a Cristo è il fine. Paolo la presenta come una specie di legge
dello spirito: “Se con l’aiuto dello Spirito fate morire le opere della
carne, vivrete” (Rom 8,13). Questo, come si vede, è un morire per
vivere; è l’opposto della visione filosofica secondo cui la vita umana è
“un vivere per morire” (Heidegger).
Si tratta di sapere se vogliamo vivere “per noi stessi”, o “per il
Signore” (cf. 2 Cor 5,15; Rom 14, 7-8). Vivere “per se stessi” significa
vivere per il proprio comodo, la propria gloria, il proprio
avanzamento; vivere “per il Signore” significa rimettere sempre al primo
posto, nelle nostre intenzioni, la gloria di Cristo, gli interessi del
Regno e della Chiesa. Ogni “ no“, piccolo o grande, detto a se stessi
per amore, è un sì detto a Cristo.
Non si tratta però di sapere tutto sul rinnegamento cristiano, la sua
bellezza e necessità; si tratta di passare all’atto, di praticarla. Un
grande maestro di spirito dell’antichità diceva: “È possibile spezzare
dieci volte la propria volontà in un tempo brevissimo; e vi dico come.
Uno sta passeggiando e vede qualcosa; il suo pensiero gli dice: “Guarda
là”, ma lui risponde al suo pensiero: “No, non guardo”, e spezza così
la propria volontà. Poi incontra altri che stanno sparlando di
qualcuno, magari del superiore, e il suo pensiero gli dice: “Di’ anche
tu quello che sai”, e spezza la sua volontà tacendo”[11].
Questo antico Padre porta esempi tratti tutti dalla vita monastica.
Ma essi si possono aggiornare e adattare facilmente alla vita di ognuno,
chierici e laici. Incontri, se non un lebbroso come Francesco, un
povero che sai ti chiederà qualcosa; il tuo uomo vecchio ti spinge a
passare al lato opposto della strada, e tu invece ti fai violenza e gli
vai incontro, magari regalandogli solo un saluto e un sorriso, se non
puoi altro. Sei stato contraddetto in una tua idea; punto sul vivo,
vorresti controbattere vivacemente, taci e aspetti: hai spezzato il tuo
io. Credi di aver ricevuto un torto, un trattamento, o una destinazione
non adeguati ai tuoi meriti: vorresti farlo notare a tutti, chiudendoti
in un silenzio di tacito rimprovero. Dici no, rompi il silenzio, sorridi
e riapri il dialogo. Hai rinnegato te stesso e salvato la carità. E
così via.
Un traguardo difficile (chi vi parla è lontano dall’esservi giunto),
ma la vicenda di Francesco, ci ha mostrato cosa può nascere da un
rinnegamento di sé fatto in risposta alla grazia. Il premio è la gioia
di poter dire con Paolo e con Francesco: “Non sono più io che vivo,
Cristo vive in me”. E sarà l’inizio della gioia e della pace, già su
questa terra. Francesco, con la sua “perfetta letizia”, è l’esempio
vivente della “gioia che viene dal Vangelo”,l’ Evangelii gaudium.
Da parte di Francesco e mia, Pace e bene a tutti!
*
NOTE[1] Y.Congar, Vera e falsa riforma nella Chiesa,Milano Jaka Book, 1972, p. 194.
[2] Celano, Vita Prima, VII, 17 (FF 348).
[3] Cf. Celano, Vita Seconda, V, 9 (FF 592)
[4] Cf. Celano, Vita prima, III, 7 (FF, 331).
[5] Bihhmeyer – Tuckle, II, p. 239.
[6] Legenda dei tre compagni VIII (FF 1431 s.).
[7] FF, 358; 1436 s.; 1508.
[8] Legenda perugina 114 (FF 1673).
[9] Regola Bollata, cap. II.
[10] Sulle condizioni della vera riforma, vedi Congar, op. cit. pp. 177 ss.
[11] Doroteo di Gaza, Opere spirituali, I,20 (SCH 92,p.177).