di JOSÉ RODRÍGUEZ CARBALLO*
Nel 1964 Luigi Santucci così scriveva: «Mi pare che il più grande
discepolo di san Francesco, da un secolo in qua, sia stato proprio un
papa: Papa Roncalli». Lo scrittore si espresse in tal modo, non perché
Papa Giovanni XXIIIfu definito il Papa buono, ma perché fu davvero un
“francescano”. Infatti, nel discorso del 16 aprile 1959 a San Giovanni
in Laterano, in occasione del settecentocinquantesimo dell’a p p ro
-vazione della Regola di san Francesco, così si presentò ai membri
dell’ordine francescano secolare: «Ego sum Ioseph, frater vester. Con
tenerezza amiamo dirlo. Lo siamo da quando giovanetto quattordicenne
appena, il 1° marzo 1896, vi fummo ascritti regolarmente... ed amiamo
benedire il Signore per questa grazia che Ci accordò».
In più passi
de Il Giornale dell’An i m a , delle lettere, dei discorsi ha
rivendicato tale appartenenza, affermando che ciò gli aveva procurato
«grandi vantaggi spirituali», specialmente, gli aveva permesso di
passare dal «Vangelo alla vita e dalla vita al Vangelo». Questo emerge
in molti tratti della sua vita, del suo modo di parlare, di ricordare,
di relazionarsi agli altri, In una parola, ciò affiora dalle sue virtù
“francescane”. Fedele seguace di san Francesco di Assisi, «una figura
che c’incanta sempre», lo imitò nella povertà, di cui tesse gli elogi in
vari discorsi. Più che altro, la visse anche quando fu chiamato a
ricoprire cariche prestigiose. «Nato povero, ma di onorata ed umile
gente — scrisse nel suo testamento — sono particolarmente lieto di
morire povero. Ringrazio Dio di questa grazia di povertà che mi sorresse
a non chiedere mai nulla, né posti, né denari, né favori; mai, né per
me, né per i miei parenti o amici». La povertà, annotò ne Il Giornale
dell’An i m a ,«mi fa rassomigliare a Gesù poveroeasan Fr a n c e s c o »
. Alla povertà GiovanniXXIII ha unito una grande umiltà. «Se voi
sapeste — confidava — quale rossore io provo a sentirmi chiamare: Santo
Padre. Davanti a Dio siamo tutti suoi piccoli figli. Io mi considero un
sacco vuoto che si lascia riempire dallo Spirito». Non è un caso, tra i
primi santi francescani canonizzati da Giovanni XXIIIci fu un
«modestissimo fratello laico dei frati minori», san Carlo da Sezze.
Possedeva Papa Roncalli un’altra virtù tipicamente francescana,
l’obbedienza: lo rendeva disponibile a ogni incarico che gli venisse
affidato («il Santo Padre disponga pure della mia umile persona in
perfetta libertà di spirito...»); specialmente sottolinea la dimensione
ecclesiale della sua obbedienza. Di fatti, sempre nel discorso del 1959,
Papa Giovanni legava l’obbedienza al fatto che Francesco andò da Papa
Innocenzo per farsi approvare lo stile di vita suggeritogli dal Signore:
vivere secondo il Vangelo, «sempre sudditi e soggetti ai piedi della
Chiesa, stabili nella fede cattolica» (Regola, 12, 4).
Cioè, per il
francescano il voto di obbedienza è anzitutto obbedienza «al Papa e alla
Chiesa — annotava nel Giornale dell’An i m a — poi a frate Francesco in
tutti i suoi successori». Francesco, povero ed umile, per Roncalli è
anche araldo della pace. Ciò risulta dalla sua predilezione per il motto
francescano: pax et bonum; dalle molteplici riflessioni, contenute in
particolare nelGiornale dell’An i m a , su ciò che dice Francesco a
proposito della pace; dal suo “modo operandi”: la bontà che regnava nel
cuore del Papa buono, si traduceva in un amore incondizionato verso
tutti. Tale bontà non proveniva dal suo carattere bonario, ma scaturiva
da una provata virtù. Infine, che cosa dire dell’«attributo
caratteristico e fondamentale di ogni fratello in san Francesco? Lo
spirito di cattolicità e di apostolato — disse Papa Giovanni XXIII nel
discorso del 16 aprile 1959 — quale Francesco lo presentò ai suoi
contemporanei, lo lasciò in eredità ai suoi frati, dopo averlo sancito
come un precetto nella santa regola». Tale dimensione di cattolicità e
di missionarietà di Papa Roncalli si evince in tutte le vie da lui
percorse in Oriente e Occidente. Soprattutto nella sua volontà di porre
il concilio Vaticano II, che stava per aprirsi, sotto la protezione di
san Francesco, che molti secoli prima era riuscito a promuovere un
profondo rinnovamento della Chiesa. Nell’o ccasione del pellegrinaggio
ad Assisi, siamo al 4 maggio 1962, tra l’a l t ro disse: «O città santa
di Assisi, tu sei rinomata in tutto il mondo per il solo fatto di aver
dato i natali al Poverello, al santo tutto serafico in ardore». Queste
parole lasciano trasparire la grande venerazione che Giovanni
XXIIInutriva per il serafico padre san Francesco che, con il suo voler
vivere semplicemente secondo il santo Vangelo di nostro Signore Gesù
Cristo, riuscì a rivoluzionare la Chiesa.
*Arcivescovo segretario
della Congregazione per gli istituti di vita consacrata
e le società di vita apostolica
L’OSSERVATORE ROMANO - domenica 27 aprile 2014 - pagina 7
" Dai loro posti di sentinella, essi aspettano il ritorno del loro Signore, per aprirgli subito, appena busserà. "
domenica 27 aprile 2014
sabato 26 aprile 2014
SAN LUIGI IX OTTOCENTESIMO DALLA NASCITA ( 1214 -2014 )
Si sono aperti ieri i festeggiamenti per gli ottocento anni dalla nascita di San Luigi IX , re di Francia e patrono dell'Ofs.
Luigi o Ludovico IX. terziario francescano, nacque a Poissy il
25-4-1214. In seguito alla repentina morte del padre, Ludovico VIII,
divenne re a undici anni, sotto la tutela della madre, Bianca di
Castiglia. Donna prudente ed energica, ella seppe trionfare delle
resistenze dei nobili miranti a sminuire il regio potere; indusse
Raimondo VII di Tolosa a porre fine alla guerra contro gli albigesi
(1229); riunì alla corona francese il ducato di Narbonne: si assicurò la
successione al contado di Tolosa. L'Alta Provenza invece fu ceduta alla
Chiesa, donde la sovranità dei Papi sul Venosino e Avignone.
Ludovico IX, alto, esile, allevato con cura dalla madre rigidamente
cattolica, a diciannove anni fu dichiarato maggiorenne e sposò
Margherita, figlia del conte di Provenza (1234), che doveva dargli
undici figli. A ventun anni la reggente gli rimise il potere, ma il
figlio volle riservarle una larga partecipazione al governo, il che gli
consentì di circondarsi di saggi e illuminati ministri che lo
coadiuvarono nell'assicurare pace e prosperità al suo popolo. Egli passò
difatti alla storia come il migliore e il più tipico monarca cristiano
del Medio Evo, modello a tutti di giustizia e d'imparzialità. Non
soltanto i suoi feudatari, ma anche sovrani stranieri e papi ricorsero
sovente al suo giudizio arbitrale nelle loro contese. E' rimasto famoso
il lodo pronunciato da lui ad Amiens il 24-1-1264 nel conflitto tra
Enrico III, re d'Inghilterra, e i suoi baroni.
I rapporti tra Ludovico IX e la Chiesa furono sempre cordiali. Se durante il suo regno permise che in Francia fosse introdotta l'Inquisizione romana, non permise mai al clero e al papa invadenze nel proprio dominio. A varie riprese ebbe a protestare contro le esigenze finanziarie di Innocenzo IV (+1254), e permise la costituzione di leghe fra i suoi baroni, intente a protestare contro le aspirazioni del clero all'indipendenza dalla giustizia regia nelle questioni temporali e a limitare l'accrescimento della ricchezza delle chiese e dei conventi a danno dei possessori laici. Nel conflitto tra il papato e il dissoluto imperatore Federico II, deposto nel concilio di Lione (1245) da Innocenzo IV, assunse un atteggiamento di assoluta neutralità. Intraprese opera di mediazione presso il papa nel convento di Cluny, ma restò infruttuosa. Quando l'imperatore, poco prima di morire (11250), concepì il disegno d'impossessarsi del Sommo Pontefice a Lione, egli gli fece sapere che a quell'impresa si sarebbe opposto con la forza. Quando Urbano IV (+1264) decise di sottrarre a Manfredi, figlio naturale di Federico II, il regno delle Due Sicilie per offrirlo a Carlo D'Angiò, fratello di Ludovico IX, questi non lo sostenne formalmente, ma permise a molti suoi baroni di prendere parte alla spedizione (1265).
Il Concilio di Lione (ecumenico XIII) aveva lanciato un appello invocante aiuto per i cristiani della Palestina ridotti nel 1244 dal sultano d'Egitto soltanto al possesso di loppe, Accon e Antiochia. Nel crescente raffreddamento per la santa causa, solo Ludovico IX fece voto di crociarsi appena fosse guarito della malattia che lo travagliava, e di mettere con disinteresse al servizio della sesta crociata tutte le sue energie. Nel 1248 partì infatti con un imponente esercito alla volta dell'Egitto. Dopo la conquista di Damietta ( 1249), mentre si avvicinava al Cairo, fu sconfitto a Mansura con tutto il suo esercito, decimato dalla peste (1250), a causa della disobbedienza di suo fratello, Roberto d'Artois, che aveva attaccato il nemico senza attendere il grosso dell'esercito. Nella ritirata Ludovico IX fu fatto prigioniero. Riscattò se stesso e i suoi compagni di sventura superstiti con una somma di 800.000 bisanti e la restituzione di Damietta. Si trattenne ancora a S. Giovanni d'Acri fino al 1254 e liberò molti prigionieri cristiani tra la generale ammirazione dei saraceni che lo avevano soprannominato il Sultano giusto. Non poté aspirare a risultati migliori perché gli vennero a mancare gli aiuti dalla patria. Durante la sua assenza Bianca di Castiglia, reggente del regno, aveva represso la rivolta dei pastorelli o contadini (1251).
Alla morte della madre (+1252) Ludovico IX tornò in Francia dove provvide all'organizzazione dei suoi stati e al consolidamento dell'autorità reale; interdisse le guerre private nei suoi domini; nominò degli "inquirenti reali" incaricati di visitare le province per prevenire o reprimere gli abusi dei balivi, siniscalchi e prevosti; abolì l'antica consuetudine del duello giudiziario; impose la "quarantena del re" di Filippo Augusto, suo nonno, cioè i 40 giorni che dovevano intercorrere tra l'offesa e la vendetta, durante i quali uno dei due avversari poteva ricorrere alla giustizia regia e mutar la guerra in un processo; istituì i casi di esclusiva competenza del sovrano, che egli esaminò nel bosco di Vincennes, seduto sotto una quercia; chiamò a sedere davanti ai tribunali legisti perché consigliassero i giudici; creò una commissione giudiziaria a corte che fu l'origine del parlamento; fece degli sforzi in vista di realizzare l'unità monetaria; favorì la fioritura della vita comunale; combatté le eresie degli albigesi e dei valdesi; promosse la pubblicazione del Libro dei Mestieri, vero codice industriale, superiore al suo tempo; proscrisse l'usura e i giochi d'azzardo; assicurò i privilegi del clero mediante la Prammatica Sanzione (1269); edificò a Parigi la Sainte- Chapelle in onore della corona di spine; eresse il collegio teologico (1257) detto poi la Sorbonne; fondò le Filles-Dieu per le donne cadute; gli ospedali di Pontoise, Vernon, Compiègne per i malati; i Quinze-Vingts per i 300 cavalieri abbacinati dai saraceni; emulò le opere buone compiute da S. Giovanni da Matha con la fondazione dell'ordine della SS. Trinità, al quale fu affiliato l'11-6-1256.
In politica estera Luigi IX cercò di eliminare i motivi di attrito tra la Francia e i paesi vicini. Una lega feudale, capitanata da Ugo il Bruno, conte delle Marche, e sostenuto da Enrico III, re di Inghilterra, fallì perché il santo re forzò il ponte di Taillebourg, e riportò una seconda vittoria a Saintes ( 1242). Convinto però che la pace deve essere fondata sul diritto, regolò il conflitto anglo - francese cedendo al re d'Inghilterra, col criticato trattato di Parigi (1259), la Guyenne, Limoges, Cahors e Périgueux, ottenendo in cambio la Normandia, l'Anjou, la Turenna, il Maine e il Poitou, terre già confiscate da Filippo Augusto a Giovanni senza Terra (+1216 ), dopo che lo aveva dichiarato decaduto dai suoi feudi francesi per l'assassinio del Plantageneta Arturo di Bretagna, pretendente come lui al trono d'Inghilterra, alla morte di Riccardo Cuor di Leone, suo fratello.
La figura di Ludovico IX restò circonfusa dell'aureola della santità. Il sire di Joinville, suo amico, ce ne lasciò una biografìa che è uno dei primi monumenti della letteratura storica francese.
I cristiani di Palestina nel 1268 perdettero anche loppe e Antiochia. Per compiacere Carlo d'Angiò, Ludovico IX intraprese allora (1270) l'ottava crociata, e si diresse prima a Tunisi, malgrado i consigli del papa, lo scontento dei vassalli e la sua cattiva salute, cullato dall'illusione che l'emiro di quella città fosse disposto a farsi battezzare con il suo popolo, per poi marciare contro l'Egitto come alleato degli occidentali. Nelle vicinanze di Cartagine scoppiò tra i soldati il tifo, che falcidiò l'esercito appena sbarcato e ridusse in fin di vita lo stesso re che a Tunisi morì il 25-8-1270. Agli inviati del principe della città aveva detto: "Desidero così vivamente la salvezza della sua anima che consentirei di restare nelle prigioni dei saraceni tutta la mia vita senza mai vedere il giorno, purché lui e tutta la sua gente si facciano cristiani".
La pietà di Ludovico IX fu sincera e senza affettazione benché il messaggero di Gueldre (Olanda) lo schernisse perché "bacchettone, collo torto e col cappuccio sulle spalle". Tutti i giorni ascoltava due messe e recitava le ore come i chierici. Amava ascoltare la parola di Dio, leggere la Bibbia, meditare i Padri e intrattenersi in questioni teologiche. A sera, prima di coricarsi, recitava 50 Ave Maria e faceva altrettante genuflessioni. Nei viaggi si fermava così a lungo nelle chiese che il suo seguito s'impazientiva.
A mensa era molto frugale. Volentieri si privava delle primizie e dei pesci di cui era ghiotto. Ogni venerdì si confessava e si faceva flagellare dal sacerdote con cinque catenelle di ferro. Portava il cilicio e ne offriva in dono agli amici. Durante l'avvento, la quaresima e ogni volta che si accostava alla Comunione dormiva da solo. Dopo che era stato con la regina non si permetteva di baciare i reliquiari. Per i poveri nutrì sempre un amore sviscerato. Invitava sovente i mendicanti alla sua tavola, li serviva e mangiava i loro avanzi. Visitava i lebbrosi e curava i malati più ripugnanti. In Palestina fece anche il becchino. Bonifacio VIII lo canonizzò nel 1297.
___________________
Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 8, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 281-284
http://www.edizionisegno.it/
I rapporti tra Ludovico IX e la Chiesa furono sempre cordiali. Se durante il suo regno permise che in Francia fosse introdotta l'Inquisizione romana, non permise mai al clero e al papa invadenze nel proprio dominio. A varie riprese ebbe a protestare contro le esigenze finanziarie di Innocenzo IV (+1254), e permise la costituzione di leghe fra i suoi baroni, intente a protestare contro le aspirazioni del clero all'indipendenza dalla giustizia regia nelle questioni temporali e a limitare l'accrescimento della ricchezza delle chiese e dei conventi a danno dei possessori laici. Nel conflitto tra il papato e il dissoluto imperatore Federico II, deposto nel concilio di Lione (1245) da Innocenzo IV, assunse un atteggiamento di assoluta neutralità. Intraprese opera di mediazione presso il papa nel convento di Cluny, ma restò infruttuosa. Quando l'imperatore, poco prima di morire (11250), concepì il disegno d'impossessarsi del Sommo Pontefice a Lione, egli gli fece sapere che a quell'impresa si sarebbe opposto con la forza. Quando Urbano IV (+1264) decise di sottrarre a Manfredi, figlio naturale di Federico II, il regno delle Due Sicilie per offrirlo a Carlo D'Angiò, fratello di Ludovico IX, questi non lo sostenne formalmente, ma permise a molti suoi baroni di prendere parte alla spedizione (1265).
Il Concilio di Lione (ecumenico XIII) aveva lanciato un appello invocante aiuto per i cristiani della Palestina ridotti nel 1244 dal sultano d'Egitto soltanto al possesso di loppe, Accon e Antiochia. Nel crescente raffreddamento per la santa causa, solo Ludovico IX fece voto di crociarsi appena fosse guarito della malattia che lo travagliava, e di mettere con disinteresse al servizio della sesta crociata tutte le sue energie. Nel 1248 partì infatti con un imponente esercito alla volta dell'Egitto. Dopo la conquista di Damietta ( 1249), mentre si avvicinava al Cairo, fu sconfitto a Mansura con tutto il suo esercito, decimato dalla peste (1250), a causa della disobbedienza di suo fratello, Roberto d'Artois, che aveva attaccato il nemico senza attendere il grosso dell'esercito. Nella ritirata Ludovico IX fu fatto prigioniero. Riscattò se stesso e i suoi compagni di sventura superstiti con una somma di 800.000 bisanti e la restituzione di Damietta. Si trattenne ancora a S. Giovanni d'Acri fino al 1254 e liberò molti prigionieri cristiani tra la generale ammirazione dei saraceni che lo avevano soprannominato il Sultano giusto. Non poté aspirare a risultati migliori perché gli vennero a mancare gli aiuti dalla patria. Durante la sua assenza Bianca di Castiglia, reggente del regno, aveva represso la rivolta dei pastorelli o contadini (1251).
Alla morte della madre (+1252) Ludovico IX tornò in Francia dove provvide all'organizzazione dei suoi stati e al consolidamento dell'autorità reale; interdisse le guerre private nei suoi domini; nominò degli "inquirenti reali" incaricati di visitare le province per prevenire o reprimere gli abusi dei balivi, siniscalchi e prevosti; abolì l'antica consuetudine del duello giudiziario; impose la "quarantena del re" di Filippo Augusto, suo nonno, cioè i 40 giorni che dovevano intercorrere tra l'offesa e la vendetta, durante i quali uno dei due avversari poteva ricorrere alla giustizia regia e mutar la guerra in un processo; istituì i casi di esclusiva competenza del sovrano, che egli esaminò nel bosco di Vincennes, seduto sotto una quercia; chiamò a sedere davanti ai tribunali legisti perché consigliassero i giudici; creò una commissione giudiziaria a corte che fu l'origine del parlamento; fece degli sforzi in vista di realizzare l'unità monetaria; favorì la fioritura della vita comunale; combatté le eresie degli albigesi e dei valdesi; promosse la pubblicazione del Libro dei Mestieri, vero codice industriale, superiore al suo tempo; proscrisse l'usura e i giochi d'azzardo; assicurò i privilegi del clero mediante la Prammatica Sanzione (1269); edificò a Parigi la Sainte- Chapelle in onore della corona di spine; eresse il collegio teologico (1257) detto poi la Sorbonne; fondò le Filles-Dieu per le donne cadute; gli ospedali di Pontoise, Vernon, Compiègne per i malati; i Quinze-Vingts per i 300 cavalieri abbacinati dai saraceni; emulò le opere buone compiute da S. Giovanni da Matha con la fondazione dell'ordine della SS. Trinità, al quale fu affiliato l'11-6-1256.
In politica estera Luigi IX cercò di eliminare i motivi di attrito tra la Francia e i paesi vicini. Una lega feudale, capitanata da Ugo il Bruno, conte delle Marche, e sostenuto da Enrico III, re di Inghilterra, fallì perché il santo re forzò il ponte di Taillebourg, e riportò una seconda vittoria a Saintes ( 1242). Convinto però che la pace deve essere fondata sul diritto, regolò il conflitto anglo - francese cedendo al re d'Inghilterra, col criticato trattato di Parigi (1259), la Guyenne, Limoges, Cahors e Périgueux, ottenendo in cambio la Normandia, l'Anjou, la Turenna, il Maine e il Poitou, terre già confiscate da Filippo Augusto a Giovanni senza Terra (+1216 ), dopo che lo aveva dichiarato decaduto dai suoi feudi francesi per l'assassinio del Plantageneta Arturo di Bretagna, pretendente come lui al trono d'Inghilterra, alla morte di Riccardo Cuor di Leone, suo fratello.
La figura di Ludovico IX restò circonfusa dell'aureola della santità. Il sire di Joinville, suo amico, ce ne lasciò una biografìa che è uno dei primi monumenti della letteratura storica francese.
I cristiani di Palestina nel 1268 perdettero anche loppe e Antiochia. Per compiacere Carlo d'Angiò, Ludovico IX intraprese allora (1270) l'ottava crociata, e si diresse prima a Tunisi, malgrado i consigli del papa, lo scontento dei vassalli e la sua cattiva salute, cullato dall'illusione che l'emiro di quella città fosse disposto a farsi battezzare con il suo popolo, per poi marciare contro l'Egitto come alleato degli occidentali. Nelle vicinanze di Cartagine scoppiò tra i soldati il tifo, che falcidiò l'esercito appena sbarcato e ridusse in fin di vita lo stesso re che a Tunisi morì il 25-8-1270. Agli inviati del principe della città aveva detto: "Desidero così vivamente la salvezza della sua anima che consentirei di restare nelle prigioni dei saraceni tutta la mia vita senza mai vedere il giorno, purché lui e tutta la sua gente si facciano cristiani".
La pietà di Ludovico IX fu sincera e senza affettazione benché il messaggero di Gueldre (Olanda) lo schernisse perché "bacchettone, collo torto e col cappuccio sulle spalle". Tutti i giorni ascoltava due messe e recitava le ore come i chierici. Amava ascoltare la parola di Dio, leggere la Bibbia, meditare i Padri e intrattenersi in questioni teologiche. A sera, prima di coricarsi, recitava 50 Ave Maria e faceva altrettante genuflessioni. Nei viaggi si fermava così a lungo nelle chiese che il suo seguito s'impazientiva.
A mensa era molto frugale. Volentieri si privava delle primizie e dei pesci di cui era ghiotto. Ogni venerdì si confessava e si faceva flagellare dal sacerdote con cinque catenelle di ferro. Portava il cilicio e ne offriva in dono agli amici. Durante l'avvento, la quaresima e ogni volta che si accostava alla Comunione dormiva da solo. Dopo che era stato con la regina non si permetteva di baciare i reliquiari. Per i poveri nutrì sempre un amore sviscerato. Invitava sovente i mendicanti alla sua tavola, li serviva e mangiava i loro avanzi. Visitava i lebbrosi e curava i malati più ripugnanti. In Palestina fece anche il becchino. Bonifacio VIII lo canonizzò nel 1297.
___________________
Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 8, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 281-284
http://www.edizionisegno.it/
" VI ERA CON LORO ANCHE GIUDA IL TRADITORE "
di P. Raniero CANTALAMESSA Ofm
Predica del Venerdì Santo
***
Dentro la storia divino-umana della passione di Gesú ci sono tante
piccole storie di uomini e di donne entrati nel raggio della sua luce o
della sua ombra. La più tragica di esse è quella di Giuda Iscariota. È
uno dei pochi fatti attestati, con uguale rilievo, da tutti e quattro i
vangeli e dal resto del Nuovo Testamento. La primitiva comunità
cristiana ha molto riflettuto sulla vicenda e noi faremmo male a non
fare altrettanto. Essa ha tanto da dirci.
Giuda fu scelto fin dalla prima ora per essere uno dei dodici.
Nell’inserire il suo nome nella lista degli apostoli l’evangelista Luca
scrive “Giuda Iscariota che divenne” (egeneto) il traditore” (Lc 6, 16).
Dunque Giuda non era nato traditore e non lo era al momento di essere
scelto da Gesú; lo divenne! Siamo davanti a uno dei drammi più foschi
della libertà umana.
Perché lo divenne? In anni non lontani, quando era di moda la tesi
del Gesú “rivoluzionario”, si è cercato di dare al suo gesto delle
motivazioni ideali. Qualcuno ha visto nel suo soprannome di “Iscariota”
una deformazione di “sicariota”, cioè appartenente al gruppo di zeloti
estremisti che agivano da “sicari” contro i romani; altri hanno pensato
che Giuda fosse deluso dal modo con cui Gesú portava avanti la sua idea
del “regno di Dio” e che volesse forzargli la mano ad agire anche sul
piano politico contro i pagani. È il Giuda del celebre musical “Jesus
Christ Superstar”e di altri spettacoli e romanzi recenti. Un Giuda che
si avvicina a un altro celebre traditore del proprio benefattore: Bruto
che uccise Giulio Cesare per salvare la Repubblica!
Sono ricostruzioni da rispettare quando rivestono qualche dignità
letteraria o artistica, ma non hanno alcun fondamento storico. I vangeli
– le uniche fonti attendibili che abbiamo sul personaggio – parlano di
un motivo molto più terra-terra: il denaro. A Giuda era stata affidata
la borsa comune del gruppo; in occasione dell’unzione di Betania aveva
protestato contro lo spreco del profumo prezioso versato da Maria sui
piedi di Gesù, non perché gli importasse dei poveri, fa notare Giovanni,
ma perché “era un ladro e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che
vi mettevano dentro” (Gv 12,6). La sua proposta ai capi dei sacerdoti è
esplicita: “Quanto siete disposti a darmi, se io ve lo consegno? Ed
essi gli fissarono trenta sicli d’argento” (Mt 26, 15).
* * *
Ma perché meravigliarsi di questa spiegazione e trovarla troppo
banale? Non è stato forse quasi sempre così nella storia e non è ancora
oggi così? Mammona, il denaro, non è uno dei tanti idoli; è l’idolo per
antonomasia; letteralmente, “l’idolo di metallo fuso” (cf. Es 34, 17). E
si capisce il perché. Chi è, oggettivamente, se non soggettivamente
(cioè nei fatti, non nelle intenzioni), il vero nemico, il concorrente
di Dio, in questo mondo? Satana? Ma nessun uomo decide di servire, senza
motivo, Satana. Se lo fa, è perché crede di ottenere da lui qualche
potere o qualche beneficio temporale. Chi è, nei fatti, l’altro padrone,
l’anti-Dio, ce lo dice chiaramente Gesù: “Nessuno può servire a due
padroni: non potete servire a Dio e a Mammona” (Mt 6, 24). Il denaro è
il “dio visibile”[1], a differenza del Dio vero che è invisibile.
Mammona è l’anti-dio perché crea un universo spirituale alternativo,
cambia oggetto alle virtù teologali. Fede, speranza e carità non vengono
più riposte in Dio, ma nel denaro. Si attua una sinistra inversione di
tutti i valori. “Tutto è possibile a chi crede”, dice la Scrittura (Mc
9, 23); ma il mondo dice: “Tutto è possibile a chi ha il denaro”. E, a
un certo livello, tutti i fatti sembrano dargli ragione.
“L’attaccamento al denaro -dice la Scrittura- è la radice di tutti i
mali” (1 Tm 6,10). Dietro ogni male della nostra società c’è il denaro, o
almeno c’è anche il denaro. Esso è il Moloch di biblica memoria, a cui
venivano immolati giovani e fanciulle (cf. Ger 32, 35), o il dio Azteco,
cui bisognava offrire quotidianamente un certo numero di cuori umani.
Cosa c’è dietro il commercio della droga che distrugge tante vite umane,
lo sfruttamento della prostituzione, il fenomeno delle varie mafie, la
corruzione politica, la fabbricazione e il commercio delle armi, e
perfino – cosa orribile a dirsi – alla vendita di organi umani tolti a
dei bambini? E la crisi finanziaria che il mondo ha attraversato e che
questo paese sta ancora attraversando, non è dovuta in buona parte
all’”esecranda bramosia di denaro”, l’auri sacra fames,[2]da parte di
alcuni pochi? Giuda cominciò con sottrarre qualche denaro dalla cassa
comune. Dice niente questo a certi amministratori del denaro pubblico?
Ma senza pensare a questi modi criminali di accumulare denaro, non è
già scandaloso che alcuni percepiscano stipendi e pensioni cento volte
superiori a quelli di chi lavora alle loro dipendenze e che alzino la
voce appena si profila l’eventualità di dover rinunciare a qualcosa, in
vista di una maggiore giustizia sociale?
Negli anni ’70 e ‘80, per spiegare, in Italia, gli improvvisi
rovesciamenti politici, i giochi occulti di potere, il terrorismo e i
misteri di ogni genere da cui era afflitta la convivenza civile, si andò
affermando l’idea, quasi mitica, dell’esistenza di un “grande Vecchio”:
un personaggio scaltrissimo e potente che da dietro le quinte avrebbe
mosso le fila di tutto, per fini a lui solo noti. Questo “grande
Vecchio” esiste davvero, non è un mito; si chiama Denaro!
Come tutti gli idoli, il denaro è “falso e bugiardo”: promette la
sicurezza e invece la toglie; promette libertà e invece la distrugge.
San Francesco d’Assisi descrive, con una severità insolita, la fine di
una persona vissuta solo per aumentare il suo “capitale”. Si avvicina la
morte; si fa venire il sacerdote. Questi chiede al moribondo: “Vuoi il
perdono di tutti i tuoi peccati?”, e lui risponde di sì. E il sacerdote:
“Sei pronto a soddisfare ai torti commessi, restituendo le cose che hai
frodato ad altri?”. Ed egli: “Non posso”. “Perché non puoi?”. “Perché
ho già lasciato tutto nelle mani dei miei parenti e amici”. E così egli
muore impenitente e appena morto i parenti e gli amici dicono tra loro:
“Maledetta l’anima sua! Poteva guadagnare di più e lasciarcelo, e non
l’ha fatto!”[3].
Quante volte, di questi tempi, abbiamo dovuto ripensare a quel grido
rivolto da Gesú al ricco della parabola che aveva ammassato beni a non
finire e si sentiva al sicuro per il resto della vita: “Stolto, questa
notte stessa l’anima tua ti sarà ridomandata; e quello che hai
preparato, di chi sarà?” (Lc 12,20)!”. Uomini collocati in posti di
responsabilità che non sapevano più in quale banca o paradiso fiscale
ammassare i proventi della loro corruzione si sono ritrovati sul banco
degli imputati, o nella cella di una prigione, proprio quando stavano
per dire a se stessi: “Ora godi, anima mia”. Per chi l’hanno fatto? Ne
valeva la pena? Hanno fatto davvero il bene dei figli e della famiglia, o
del partito, se è questo che cercavano? O non hanno piuttosto rovinato
se stessi e gli altri? Il dio denaro si incarica di punire lui stesso i
suoi adoratori.
* * *
Il tradimento di Giuda continua nella storia e il tradito è sempre
lui, Gesú. Giuda vendette il capo, i suoi seguaci vendono il suo corpo,
perché i poveri sono membra di Cristo. “Tutto quello che avete fatto a
uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt
25, 40). Ma il tradimento di Giuda non continua solo ne casi clamorosi
che ho evocato. Sarebbe comodo per noi pensarlo, ma non è così. È
rimasta famosa l’omelia che tenne un Giovedì Santo don Primo Mazzolari
su “Nostro fratello Giuda”. “Lasciate, diceva ai pochi parrocchiani che
aveva davanti, che io pensi per un momento al Giuda che ho dentro di me,
al Giuda che forse anche voi avete dentro”.
Si può tradire Gesú anche per altri generi di ricompensa che non
siano i trenta denari. Tradisce Cristo chi tradisce la propria moglie o
il proprio marito. Tradisce Gesú il ministro di Dio infedele al suo
stato, o che invece di pascere il gregge pasce se stesso. Tradisce Gesú
chiunque tradisce la propria coscienza. Posso tradirlo anch’io, in
questo momento – e la cosa mi fa tremare – se mentre predico su Giuda mi
preoccupo dell’approvazione dell’uditorio più che di partecipare
all’immensa pena del Salvatore. Giuda aveva un’attenuante che noi non
abbiamo. Egli non sapeva chi era Gesú, lo riteneva solo “un uomo
giusto”; non sapeva che era il Figlio di Dio, noi sì.
Come ogni anno, nell’imminenza della Pasqua, ho voluto riascoltare la
“Passione secondo S. Matteo” di Bach. C’è un dettaglio che ogni volta
mi fa trasalire. All’annuncio del tradimento di Giuda, lì tutti gli
apostoli domandano a Gesù: “Sono forse io, Signore?” “Herr, bin ich’s?”.
Prima però di farci ascoltare la risposta di Cristo, annullando ogni
distanza tra l’evento e la sua commemorazione, il compositore inserisce
un corale che inizia così: “Sono io, sono io il traditore! Io devo fare
penitenza!”, “Ich bin’s, ich sollte büßen”[4]. Come tutti i corali di
quell’opera, esso esprime i sentimenti del popolo che ascolta; è un
invito a fare anche noi la nostra confessione di peccato.
* * *
Il vangelo descrive la fine orrenda di Giuda: “Giuda, che l’aveva
tradito, vedendo che Gesù era stato condannato, si pentì, e riportò i
trenta sicli d’argento ai capi dei sacerdoti e agli anziani, dicendo:
Ho peccato, consegnandovi sangue innocente. Ma essi dissero: Che
c’importa? Pensaci tu. Ed egli, buttati i sicli nel tempio, si
allontanò e andò a impiccarsi” (Mt 27, 3-5). Ma non diamo un giudizio
affrettato. Gesú non ha mai abbandonato Giuda e nessuno sa dove egli è
caduto nel momento in cui si è lanciato dall’albero con la corda al
collo: se nelle mani di Satana o in quelle di Dio. Chi può dire cosa è
passato nella sua anima in quegli ultimi istanti? “Amico”, era stata
l’ultima parola rivoltagli da Gesú nell’orto ed egli non poteva averla
dimenticata, come non poteva aver dimenticato il suo sguardo.
È vero che, parlando al Padre di suoi discepoli, Gesú aveva detto di
Giuda: “Nessuno di loro è andato perduto, tranne il figlio della
perdizione” (Gv 17, 12), ma qui, come in tanti altri casi, egli parla
nella prospettiva del tempo non dell’eternità. Anche l’altra parola
tremenda detta di Giuda: “Meglio sarebbe per quell’uomo se non fosse mai
nato” (Mc 14, 21) si spiega con l’enormità del fatto, senza bisogno di
pensare a un fallimento eterno. Il destino eterno della creatura è un
segreto inviolabile di Dio. La Chiesa ci assicura che un uomo o una
donna proclamati santi sono nella beatitudine eterna; ma di nessuno essa
stessa sa che è certamente all’inferno.
Dante Alighieri, che, nella Divina Commedia, colloca Giuda nel
profondo dell’inferno, narra della conversione all’ultimo istante di
Manfredi, figlio di Federico II e re di Sicilia, che tutti a suo tempo
ritenevano dannato perché morto scomunicato. Ferito a morte in
battaglia, egli confida al poeta che, nell’ultimo istante di vita, si
arrese piangendo a colui “che volentier perdona” e dal Purgatorio manda
sulla terra questo messaggio che vale anche per noi:
Orribil furon li peccati miei;
ma la bontà infinita ha sì gran braccia,
che prende ciò che si rivolge a lei[5].
ma la bontà infinita ha sì gran braccia,
che prende ciò che si rivolge a lei[5].
* * *
Ecco a cosa deve spingerci la storia del nostro fratello Giuda: ad
arrenderci a colui che volentieri perdona, a gettarci anche noi tra le
braccia aperte del crocifisso. La cosa più grande nella vicenda di Giuda
non è il suo tradimento, ma la risposta che Gesú da ad esso. Egli
sapeva bene cosa stava maturando nel cuore del suo discepolo; ma non lo
espone, vuole dargli la possibilità fino all’ultimo di tornare indietro,
quasi lo protegge. Sa perché è venuto, ma non rifiuta, nell’orto degli
ulivi, il suo bacio di gelo e anzi lo chiama amico (Mt 26, 50). Come
cercò il volto di Pietro dopo il rinnegamento per dargli il suo perdono,
chissà come avrà cercato anche quello di Giuda in qualche svolta della
sua via crucis! Quando dalla croce prega: “Padre, perdona loro perché
non sanno quello che fanno” (Lc 23, 34), non esclude certamente da essi
Giuda.
Che faremo dunque noi? Chi seguiremo, Giuda o Pietro? Pietro ebbe
rimorso di quello che aveva fatto, ma anche Giuda ebbe rimorso, tanto
che gridò: «Ho tradito sangue innocente!» e restituì i trenta denari.
Dov’è allora la differenza? In una cosa sola: Pietro ebbe fiducia nella
misericordia di Cristo, Giuda no! Il più grande peccato di Giuda non fu
aver tradito Gesú, ma aver dubitato della sua misericordia.
Se lo abbiamo imitato, chi più chi meno, nel tradimento, non lo
imitiamo in questa sua mancanza di fiducia nel perdono. Esiste un
sacramento nel quale è possibile fare una esperienza sicura della
misericordia di Cristo: il sacramento della riconciliazione. Quanto è
bello questo sacramento! È dolce sperimentare Gesú come maestro, come
Signore, ma ancora più dolce sperimentarlo come Redentore: come colui
che ti tira fuori dal baratro, come Pietro dal mare, che ti tocca, come
fece con il lebbroso, e ti dice: “Lo voglio, sii guarito!” (Mt 8,3).
La confessione ci permette di sperimentare su di noi quello che la
Chiesa dice del peccato di Adamo nell’Exultet pasquale: “O felice colpa
che ci ha meritato un tale Redentore!”. Gesù sa fare di tutte le colpe
umane, una volta che ci siamo pentiti, delle “felici colpe”, delle colpe
che non si ricordano più se non per l’esperienza di misericordia e di
tenerezza divina di cui sono state occasione!
Ho un augurio da fare a me e a tutti voi, Venerabili Padri, fratelli
e sorelle: che il mattino di Pasqua possiamo destarci e sentire
risuonare nel nostro cuore le parole di un grande convertito del nostro
tempo, il poeta e drammaturgo Paul Claudel:
“Mio Dio, sono risuscitato e sono ancora con Te!
Dormivo ed ero steso come un morto nella notte.
Hai detto: “Sia la luce! E io mi sono svegliato come si getta un grido! […]
Padre mio che mi hai generato prima dell’Aurora, sono alla tua presenza.
Il mio cuore è libero e la bocca mondata, corpo e spirito sono a digiuno.
Sono assolto di tutti i peccati, che ho confessati uno ad uno.
L’anello nuziale è al mio dito e il mio volto è pulito.
Sono come un essere innocente nella grazia che mi hai concessa”[6].
Questo può fare di noi la Pasqua di Cristo.
*
NOTE
[1] W. Shakespeare, Timone d’Atene, atto IV, sc. 3.
[2] Virgilio, Eneide, 3. 56-57
[3] Cf. S. Francesco, Lettera a tutti i fedeli 12 (Fonti Francescane, 205).
[4] “ Ich bin’s, ich sollte büßen, / An Händen und an Füßen /
Gebunden in der Höll. / Die Geißeln und die Banden / Und was du
ausgestanden, / Das hat verdienet meine Seel“.
[5] Purgatorio, III, 118-123.
[6] P. Claudel, Prière pour le Dimanche matin, in Œuvres poétiques, Gallimard, Paris, 1967, p. 377 :
«Mon Dieu, je suis ressuscité et je suis encore avec Toi !
Je dormais et j’étais couché ainsi qu’un mort dans la nuit.
Dieu dit : Que la lumière soit ! et je me suis réveillé comme on pousse un cri ! […]
Mon père qui m’avez engendré avant l’Aurore, je me place dans Votre Présence.
Mon cœur est libre et ma bouche est nette, mon corps et mon esprit sont à jeun.
Je suis absous de tous mes péchés que j’ai confessés un par un.
L’anneau nuptial est à mon doigt et ma face est nettoyée.
Je suis comme un être innocent dans la grâce que Vous m’avez octroyée » .
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martedì 1 aprile 2014
LE GOFF : " IL MIO FRANCESCO : UN SANTO FATTO DI CARNE di Stephane Bouquet
Lo storico ribalta l' immagine idilliaca per meglio capirne la grandezza "La famosa predica agli uccelli non rappresento' certamente un momento felice. In realta' egli si rivolgeva ai volatili dell' apocalisse perche' attaccassero la curia con i loro becchi"
Dopo la biografia dedicata a Luigi IX, il medievalista
racconta la vita del patrono d' Italia. E sfata dei luoghi comuni. Lo storico ribalta l'
immagine idilliaca per meglio capirne la grandezza "La famosa predica
agli uccelli non rappresento' certamente un momento felice. In realta'
egli si rivolgeva ai volatili dell' apocalisse perche' attaccassero la
curia con i loro becchi" Dopo il saggio su san Luigi, Jacques Le Goff
pubblica un' altra vita di un santo, quella di Francesco d' Assisi
(1182 - 1226), che, si dice, predicava graziosamente agli uccelli, ma e'
falso. Il nuovo libro e' piu' breve di quello su san Luigi. Esso adotta
una forma frammentaria che Le Goff rivendica come un altro modo di
scrivere la vita di un uomo. Il suo san Francesco non e' chiaramente
un' agiografia, poiche' si assoggetta a tutte le regole della verifica
scientifico - storica delle fonti, della lettura critica dei testi e
delle immagini a disposizione, dello studio minuzioso, per esempio, del
vocabolario di Francesco e dei suoi discepoli. Rimane il fatto che si e'
colpiti dalla clemenza di Le Goff riguardo al suo eroe. Lo storico ha
nei riguardi del santo una fascinazione e un' empatia profonda. Ciascuno
ha le sue ragioni, sembra dire Le Goff, e Francesco aveva le sue, nei
suoi momenti di debolezza, quando abbandona la lotta contro la curia
romana e le consente di mettere le mani sulla sua confraternita e, piu' o
meno, di modificare la dottrina. Le Goff crede di conoscere le
motivazioni del santo che ama tanto. Gli abbiamo chiesto quali. -
Perche' , quando ha deciso di dedicarsi al genere biografico, ha scelto
prima san Luigi e non san Francesco che sembra accompagnarla da lungo
tempo? "Scrivere una biografia per un medioevalista non e' facile,
perche' deve avvicinarsi molto vicino al soggetto e, in generale, non
dispone di sufficiente documentazione. La scelta era quindi limitata.
Non volevo cavarmela con l' artificio di occultare il personaggio con
cio' che lo circonda. Bisognava utilizzare la biografia come quello che
io ho chiamato con Pierre Toubert un "oggetto globalizzante", che
permette, a partire dal soggetto studiato, di illuminare la societa' che
lo circonda. D' altro canto, i periodi sui quali sono meno ignorante
sono il XII e il XIII secolo, con una certa predilezione per il XIII,
che cerca di canalizzare e istituzionalizzare la grande fioritura
economica, teologica, intellettuale e artistica del XII secolo. Avevo a
disposizione, tutto sommato, tre personaggi: san Francesco d' Assisi,
Federico II, san Luigi. Credo in linea di massima che ci debba essere un
certo legame affettivo fra lo storico e il suo soggetto. Da lontano,
Francesco mi attirava di piu' , ma esistevano eccellenti opere in
italiano. Forse ero anche piu' intimidito, avevo timore di tradirlo, e
non si trattava soltanto di un timore da storico". - Esiste per san
Francesco lo stesso problema delle fonti che per san Luigi? "La
biografia - e insisto sulla grande importanza della biografia che e' l'
apice del mestiere dello storico - ha bisogno di fonti che permettano di
raggiungere quella che si spera essere la verita' del personaggio. Per
san Luigi, il problema delle fonti e' stato angosciante, perche' queste
obbedivano tutte a stereotipi, a luoghi comuni, a modelli teorici della
concezione medioevale del re, al punto che mi sono chiesto se lo
storico era in grado di giungere a un san Luigi vero. Per san Francesco
il problema e' stato un altro. Ha lasciato dei testi, abbiamo una
grande quantita' di documenti scritti su di lui, cosi' come
iconografia, e anche se il personaggio sembra difficile da comprendere,
gia' i suoi compagni si domandavano chi era Francesco. A differenza di
san Luigi, era proprio lui, l' eroe, a essere enigmatico". - In cosa
consiste questo enigma? "Aveva sentimenti e atteggiamenti che
potevano apparire contraddittori. Manifesta ostilita' nei confronti
della Chiesa, scrive di tutti i colori sui prelati e la curia
pontificia, ma, d' altro canto, insiste sul carattere necessario,
cristico, del clero. Credo di averne compreso la ragione: Francesco
aveva un bisogno profondo di sacramenti e di sacralita' . Questo spiega
l' episodio delle stimmate. Quando dice che un serafino gli e' apparso e
che dei raggi emessi dalle sue mani hanno lasciato delle stimmate sui
suoi piedi, le sue mani, i suoi fianchi - Francesco e' il primo
stigmatizzato, cosa che gli conferisce, in quanto santo, un carattere
eccezionale - egli concilia cose contraddittorie. Il serafino fa parte
del mondo sacro, ma il dono delle piaghe di Cristo nella sua carne e' il
culmine del carattere evangelico (preghiera, ascetismo, eremitismo) ed
e' molto lontano dalla sacralita". - Qual e' l' atteggiamento dello
storico nei confronti dei miracoli? "L' uomo di fede accetta i
miracoli senza spiegazione scientifica. Lo storico, quando i miracoli
sono percepiti come tali dalla societa' , ha il dovere di considerarli
come eventi storici. Questo e' il caso delle stimmate di Francesco, che
non sono apparse in un momento qualsiasi. Quando, verosimilmente, il
conflitto all' interno della curia romana e in seno alla sua
confraternita diventa troppo forte, Francesco sceglie la fuga. Abbandona
la guida dell' ordine nel 1220. E nel 1224 ha questa idea geniale delle
stimmate. Certamente Francesco non se le e' inventate, ma per lui si
trattava di un messaggio dall' alto. Le stimmate sono una ricompensa,
un' approvazione divina del suo essere e della sua posizione, e, al
tempo stesso, una penitenza che concilia tutte le sue aspirazioni". -
Lei dipinge Francesco quasi come un rivoluzionario. "Cosa molto piu'
vicina al vero Francesco di quanto non lo sia la sua predica agli
uccelli, a proposito della quale ho cercato di dimostrare che non
rappresentava proprio il momento idilliaco che si dice. Nauseato dalla
curia, si rivolge agli uccelli dell' apocalisse e dice loro di
attaccarla con i loro becchi. Siamo molto lontani dalla visione
edulcorata, presentata in particolare da Giotto che ha dipinto un
Francesco pronto a soddisfare la borghesia fiorentina, quindi tutto
tranne che un rivoluzionario. Ora, Francesco detesta tutti coloro che
detengono il potere temporale, in particolare i prelati, tanto piu' che
in praelatum c' e' il prefisso prae, "al di sopra di, davanti a",
prefisso di dominio. Ho sempre pensato che una delle fonti fondamentali
dello storico fosse lo studio delle parole e del vocabolario. Per
esempio, ho trovato il purgatorio sottolineando che verso il 1160
purgatorius, che era un aggettivo, diventa un sostantivo, purgatorium.
Che cosa significa questo? Senza dubbio che ormai era un luogo.
Francesco, dunque, per tornare a lui, e' strenuamente a favore dell'
uguaglianza anche se pensa che bisogna evitare disordini, in ogni caso
un certo disordine che possa facilitare l' ascesa al potere dei malvagi.
Da questo punto di vista, san Francesco e' molto piu' attuale di san
Luigi. E' uno di coloro cui ci rivolgiamo per cambiare la societa". -
Lei fa diventare Francesco anche un femminista. "La questione e'
controversa. Jacques Dalarun sostiene che egli era piuttosto
antifemminista, perche' nei suoi scritti non parla quasi mai delle donne
e in particolare di santa Chiara che ha fondato le clarisse, versione
femminile dei francescani, e che fu la prima monaca di clausura a dare
al suo ordine una regola scritta. Non condivido questo punto di vista.
Non posso dire se Francesco "amasse le donne". Rilevo che un insieme di
circostanze puo' indurre a non escluderlo. Oltre al Vangelo, la sua
grande fonte d' ispirazione era la poesia cortese, che ha inventato l'
amore moderno e da cui Francesco ha tratto la figura di Monna Poverta' .
D' altra parte, Francesco si preoccupava della globalita' del mondo,
come dimostra il "Cantico delle creature". Non poteva trascurare la
meta' della societa' , per parlare in termine attuali". Stephane Bouquet
" Liberation (Trad.: Oxford Group)
(10 ottobre 1999) - Corriere della Sera
Jacques Le Goff (Tolone, 1º gennaio 1924 – Parigi, 1º aprile 2014)
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