venerdì 20 aprile 2012

COME SE FOSSE IL SOLE




Quando si parla della Verna il pensiero corre subito all’intimo tormento di S. Francesco e a quel prodigioso miracolo che impresse sulla sua carne, sul finire dell'estate del 1224, le stimmate di Cristo, conformandolo definitivamente a Lui.  Visitare la Verna è dunque affacciarsi a questo mistero, chiedere di esporsi a questa luce.Alla Verna Francesco chiede di conoscere Cristo in un modo nuovo, non più vedendo, toccando,ascoltando..., bensì  provando; “ch'io senta nel cuore mio, quanto è possibile, quello eccessivoamore del quale eri acceso nel sostenere volentieri tanta passione per noi peccatori” (FF 1919).
Per questaconoscenza non basta la mente, il cuore, l'anima..., ci vuole tutta la persona: anche il corpo.
Questa fisionomia,che lega il luogo ( detto usualmente “Golgota francescano” ) alla passione mistica del Santo , prevale in genere su ogni altro tipo di lettura. Tuttavia, il mistero che ha segnato in modosingolare l'esperienza di Francesco deve essere interpretato, per motivi di completezza,alla luce della totalità dell’evento pasqualemessianico che egli ha riprodotto nella sua carne, e che in Cristo trova compimento nella resurrezione.Le ferite infatti, segni della morte, perla potente forza dell’amore diventano segni invincibili di vita.
Anche Francesco d’Assisi ha posto la Pasqua come fondamento di tutta la sua esperienza in Cristo, dagli inizi della conversione fino alla morte, nudo sulla nuda terra.
Questo capovolgimento è ben rappresentato dall’episodio della lavanda dei piedi, dove il Signore della vita («Io sono la via, la verità e la vita»; Gv 14,6) si è fatto servo, perché da Signore e Maestro ha lavato i piedi ai suoi discepoli (cfr. Gv 13,1-20).
Per frate Francesco l’atteggiamento cristiano del servo è quello che lui chiama “minorità” (cfr., ad es., Rnb V,15.19), e infatti spesso in quei testi nei quali egli parla di minorità o di frati minori, ci sono dei riferimenti alla lavanda dei piedi o al brano del Vangelo di Matteo.
Allora, anche la conversione pasquale secondo Francesco, pienamente fondata su Cristo, è un capovolgimento della gerarchia dei valori, da “maggiore” secondo il mondo, a “minore” secondo il Vangelo: «- Voglio che questa fraternità sia chiamata Ordine dei Frati Minori -. » (1Cel I, XV, 17-18).
Altro aspetto da mettere in evidenza per ciò che riguarda la “Pasqua francescana”, è il passaggio dalla morte alla vita.
Guardando il corpo di frate Francesco morto stimmatizzato, nudo sulla nuda terra dobbiamo chiederci : dov’è o Cristo la tua Resurrezione?
Forse una risposta la troviamo nel racconto della stimmatizzazione che ne fannoi Fioretti«In questa apparizione mirabile, tutto il monte della Verna parea che ardesse di fiamma splendissima, la quale risplendeva e illuminava tutti i monti e le valli d'intorno, come se fosse sopra la terra il sole; onde i pastori che vegliavano in quelle contrade, veggendo il monte infiammato e tanta luce d'intorno, si ebbero grandissima paura, secondo ch'eglino poi narrarono ai frati, affermando che quella fiamma era durata sopra il monte della Verna per spazio di un'ora e più» (Della terza considerazione delle sacre sante istimate FF. 1920).
Dal momento in cui aveva ricevuto le stimmate, due anni prima di morire, Francesco non fa altro che pensare alla sua morte, cioè all’incontro integrale con Dio. Per lui era cominciato come un nuovo itinerario di intimità col suo Signore.Ecco perché per Francesco la morte si chiamava “sorella”, perché era ed è colei che ci conduce fraternamente all’incontro definitivo con Dio. Le stimmate sono il segno del Cristo crocifisso, ma anche del Risorto!

E l’immagine del Cristo crocifisso, che Francesco ha sempre prediletto è quella del Crocifisso Risorto (di San Damiano), perché meglio rappresenta la condizione del cristiano, che ogni giorno è chiamato a vivere la sua morte e resurrezione per opera di Dio.

La Pasqua era per il Poverello, anche il passaggio da questo mondo al Padre, cioè un esodo, l’Esodo.
San Bonaventura argomenta questo aspetto dell’Alter Christus forse, meglio di chiunque altro:«Una volta, nel giorno santo di Pasqua, siccome si trovava in un romitorio molto lontano dall’abitato e non c’era possibilità di andare a mendicare, memore di Colui che in quello stesso giorno apparve ai discepoli in cammino verso Emmaus, in figura di pellegrino, chiese l’elemosina, come pellegrino e povero, ai suoi stessi frati.
Come l’ebbe ricevuta, li ammaestrò con santi discorsi a celebrare continuamente la Pasqua del Signore, cioè il passaggio da questo mondo al Padre…» (LM VII, 9).

La Pasqua era per il frate d’Assisi, il passaggio dalla morte alla vita, dal peccato alla penitenza, dalla superficialità alla contemplazione.

Una contemplazione che è rendimento di grazie a Dio per quanto ha operato in lui attraverso questo Mistero così grande, una contemplazione che si trasforma in lode: «… ti rendiamo grazie perché […] per la croce, il sangue e la morte di Lui ci hai voluti liberare e redimere» (Rnb XXIII, 5).

                                                        Antonio Fasolo Ofs

“Dio che aveva reso mirabilmente risplendente, in vita, quest'uomo ammirabile, ricchissimo per la povertà, sublime per l'umiltà, vigoroso per la mortificazione, prudente per la semplicità e cospicuo per l'onestà d'ogni suo comportamento, lo rese incomparabilmente più risplendente dopo la morte.
L'uomo beato era migrato dal mondo; ma quella sua anima santa, entrando nella casa dell'eternità e nella gloria del cielo, per bere in pienezza alla fonte della vita, aveva lasciato ben chiari nel corpo alcuni segni della gloria futura: quella carne santissima che, crocifissa insieme con i suoi vizi, già si era trasformata in nuova creatura, mostrava agli occhi di tutti, per un privilegio singolare, I'effige della Passione di Cristo e, mediante un miracolo mai visto, anticipava l'immagine della resurrezione.”( FF.1246 )

lunedì 16 aprile 2012

          Come un tenero addio, sempre il tuo ricordo mi assale.

domenica 8 aprile 2012

EXULTET



Esulti il coro degli angeli,
esulti l'assemblea celeste:
un inno di gloria saluti il trionfo del Signore risorto.
Gioisca la terra inondata da così grande splendore;
la luce del Re eterno ha vinto le tenebre del mondo.
Gioisca la madre Chiesa, splendente della gloria del suo Signore,
e questo tempio tutto risuoni
per le acclamazioni del popolo in festa.
E voi, fratelli carissimi,
qui radunati nella solare chiarezza di questa nuova luce,
invocate con me la misericordia di Dio onnipotente.
Egli che mi ha chiamato, senza alcun merito,
nel numero dei suoi ministri, irradi il suo mirabile fulgore,
perché sia piena e perfetta la lode di questo cero.

Il Signore sia con voi.
E con il tuo spirito.

In alto i nostri cuori.
Sono rivolti al Signore.

Rendiamo grazie al Signore, nostro Dio.
È cosa buona e giusta.

È veramente cosa buona e giusta
esprimere con il canto l'esultanza dello spirito,
e inneggiare al Dio invisibile, Padre onnipotente,
e al suo unico Figlio, Gesù Cristo nostro Signore.

Egli ha pagato per noi all'eterno Padre il debito di Adamo,
e con il sangue sparso per la nostra salvezza
ha cancellato la condanna della colpa antica.
Questa è la vera Pasqua, in cui è ucciso il vero Agnello,
che con il suo sangue consacra le case dei fedeli.
Questa è la notte in cui hai liberato i figli di Israele, nostri padri,
dalla schiavitù dell'Egitto,
e li hai fatti passare illesi attraverso il Mar Rosso.
Questa è la notte in cui hai vinto le tenebre del peccato
con lo splendore della colonna di fuoco.
Questa è la notte che salva su tutta la terra i credenti nel Cristo
dall'oscurità del peccato e dalla corruzione del mondo,
li consacra all'amore del Padre
e li unisce nella comunione dei santi.
Questa è la notte in cui Cristo, spezzando i vincoli della morte,
risorge vincitore dal sepolcro.
Nessun vantaggio per noi essere nati, se lui non ci avesse redenti.
O immensità del tuo amore per noi! O inestimabile segno di bontà:
per riscattare lo schiavo, hai sacrificato il tuo Figlio!
Davvero era necessario il peccato di Adamo,
che è stato distrutto con la morte del Cristo.
Felice colpa, che meritò di avere un così grande redentore!
O notte beata, tu sola hai meritato di conoscere
il tempo e l'ora in cui Cristo è risorto dagli inferi.
Di questa notte è stato scritto: la notte splenderà come il giorno,
e sarà fonte di luce per la mia delizia.
Il santo mistero di questa notte sconfigge il male,
lava le colpe, restituisce l'innocenza ai peccatori,
la gioia agli afflitti.
Dissipa l'odio, piega la durezza dei potenti,
promuove la concordia e la pace.
O notte veramente gloriosa,
che ricongiunge la terra al cielo e l'uomo al suo creatore!
In questa notte di grazia accogli, Padre santo, il sacrificio di lode,
che la Chiesa ti offre per mano dei suoi ministri,
nella solenne liturgia del cero,
frutto del lavoro delle api, simbolo della nuova luce.
Riconosciamo nella colonna dell'Esodo
gli antichi presagi di questo lume pasquale
che un fuoco ardente ha acceso in onore di Dio.
Pur diviso in tante fiammelle non estingue il suo vivo splendore,
ma si accresce nel consumarsi della cera
che l'ape madre ha prodotto
per alimentare questa preziosa lampada.
Ti preghiamo, dunque, Signore, che questo cero,
offerto in onore del tuo nome
per illuminare l'oscurità di questa notte,
risplenda di luce che mai si spegne.
Salga a te come profumo soave,
si confonda con le stelle del cielo.
Lo trovi acceso la stella del mattino,
questa stella che non conosce tramonto:
Cristo, tuo Figlio, che risuscitato dai morti
fa risplendere sugli uomini la sua luce serena
e vive e regna nei secoli dei secoli. Amen.

sabato 7 aprile 2012

LA DISCESA AGLI INFERI DEL SIGNORE




                                                                    




"Che cosa è avvenuto?
Oggi sulla terra c'è grande silenzio,
grande silenzio e solitudine.

Grande silenzio perché il Re dorme:
la terra è rimasta sbigottita e tace
perché il Dio fatto carne si è
addormentato e ha svegliato
coloro che da secoli dormivano.

Dio è morto nella carne ed è sceso
a scuotere il regno degli inferi.

Certo Egli va a cercare il primo padre,
come la pecorella smarrita.

Egli vuole scendere a visitare quelli
che siedono nelle tenebre e nell'ombra
di morte.

Dio e il Figlio suo vanno a liberare
dalle sofferenze Adamo ed Eva che
si trovano in prigione.

Il Signore entrò da loro portando
le armi vittoriose della Croce.

Appena Adamo, il progenitore, lo vide,
percuotendosi il petto per la meraviglia,
gridò a tutti e disse: « Sia con tutti il
mio Signore ».

E Cristo rispondendo disse ad Adamo:
« E con il tuo spirito ». E, presolo per
mano, lo scosse, dicendo:

"Svegliati, tu che dormi,
e risorgi dai morti, e Cristo ti illuminerà.

Io sono il tuo Dio, che per te
sono diventato tuo figlio;
che per te e per questi,
che da te hanno avuto origine,
ora parlo e nella mia potenza
ordino a coloro che erano in
carcere: Uscite!

A coloro che erano nelle tenebre:
Siate illuminati!

A coloro che erano morti:
Risorgete!

A te comando:
Svegliati, tu che dormi!

Infatti non ti ho creato perché
rimanessi prigioniero nell'inferno.
Risorgi dai morti.

Io sono la vita dei morti.
Risorgi, opera delle mie mani!
Risorgi mia effige, fatta a mia
immagine!

Risorgi, usciamo di qui!
Tu in me e Io in te siamo infatti
un'unica e indivisa natura.

Per te Io, tuo Dio, mi sono fatto
tuo figlio.

Per te Io, il Signore, ho rivestito
la tua natura di servo.

Per te, Io che sto al di sopra dei cieli,
sono venuto sulla terra e al di sotto
della terra.

Per te uomo ho condiviso
la debolezza umana, ma poi
son diventato libero tra i morti.

Per te, che sei uscito dal giardino
del paradiso terrestre, sono stato
tradito in un giardino e dato in mano
ai Giudei, e in un giardino sono
stato messo in croce.

Guarda sulla mia faccia gli sputi
che io ricevetti per te, per poterti
restituire a quel primo soffio vitale.

Guarda sulle mie guance gli schiaffi,
sopportati per rifare a mia immagine
la tua bellezza perduta.

Guarda sul mio dorso la flagellazione
subita per liberare le tue spalle dal
peso dei tuoi peccati.

Guarda le mie mani inchiodate
al legno per te, che un tempo
avevi malamente allungato
la tua mano all'albero.

Morii sulla croce e la lancia
penetrò nel mio costato,
per te che ti addormentasti
nel paradiso e facesti uscire
Eva dal tuo fianco.

Il mio costato sanò il dolore
del tuo fianco.

Il mio sonno ti libererà dal sonno
dell'inferno.

La mia lancia trattenne la lancia
che si era rivolta contro di te.

Sorgi, allontaniamoci di qui.
Il nemico ti fece uscire
dalla terra del paradiso.

Io invece non ti rimetto più
in quel giardino, ma ti colloco
sul trono celeste.

Ti fu proibito di toccare la pianta
simbolica della vita, ma io, che
sono la vita, ti comunico quello
che sono.

Ho posto dei cherubini
che come servi ti custodissero.

Ora faccio sì che i cherubini
ti adorino quasi come Dio,
anche se non sei Dio.

Il trono celeste è pronto,
pronti e agli ordini sono i portatori,
la sala è allestita,
la mensa apparecchiata,
l'eterna dimora è addobbata,
i forzieri aperti.

In altre parole,
è preparato per te dai secoli
eterni il Regno dei Cieli.
(Antica omelia sul Sabato santo)

PREGHIERA
O Dio eterno e onnipotente,
che ci concedi di celebrare
il mistero del Figlio tuo Unigenito
disceso nelle viscere della terra,
fa' che sepolti con Lui nel battesimo,
risorgiamo con Lui nella gloria
della risurrezione.

Egli è Dio, e vive e regna con te,
nell'unità dello Spirito Santo,
per tutti i secoli dei secoli. Amen!

giovedì 5 aprile 2012

Un presepe per Pasqua





di GIANCARLO MANIERI

Al "Don Bosco", la parrocchia romana del Tuscolano, vicina a Cinecittà, i salesiani che la animano si sono domandati: "Perché mai a Natale, festa dell'Incarnazione del Signore, si fa il presepe (la fortunata invenzione di san Francesco ha attraversato i secoli con la santa famiglia, la grotta, i pastori, l'asino e il bue, il paesaggio, eccetera) e a Pasqua, festa delle feste, memoriale di Cristo, che per non lasciare l'umanità si fa pane, solennità che ricorda il più incredibile dei miracoli, la resurrezione, perché non si fa qualcosa di simile a un presepe? Magari un quadro plastico, una scenografia, un diorama che ricordi al popolo di Dio gli avvenimenti finali della salvezza: l'ultima cena con l'istituzione dell'Eucarestia il giovedì santo; la morte in croce il venerdì di passione; il sepolcro del sabato santo rimasto vuoto per la resurrezione, la domenica senza tramonto, Pasqua del Signore!".
Così ecco l'idea sbocciare a poco a poco, a partire da una frase del Vangelo di Luca (24, 1): "Il primo giorno dopo il sabato (le donne che erano venute con Gesù dalla Galilea [Luca, 23, 55]), di buon mattino, si recarono alla tomba, portando con sé gli aromi che avevano preparato". Le donne dunque, sempre prime, sempre coraggiose. I discepoli, in effetti, eccetto il più giovane, si erano eclissati mentre loro, che forse avevano compreso meglio degli altri, con tipica intuizione femminile, la realtà profonda di quell'affascinante rabbi predicatore, hanno continuato a seguirlo fin sotto la croce, assieme a Maria sua madre, e a volerlo servire fin nel sepolcro, come avevano fatto in Galilea. Esse dunque nell'alba radiosa di un giorno che avrebbe ribaltato la storia del mondo e dell'uomo, esse e non altri, ebbero il coraggio tutto femminile di incamminarsi verso il sepolcro per "accudire" il corpo del Maestro.
Il diorama approntato al "Don Bosco", nello stesso posto dove tutti gli anni viene allestito il presepio, non presenta lo sparuto gruppetto delle donne di Galilea che la mattina di Pasqua si recarono là dove avevano deposto il maestro. Maria di Màgdala, Maria di Giacomo e Salome, le tre menzionate dall'evangelista Marco (16, 1), rappresentano tutte le donne del mondo. Tre, numero perfetto della cabalà ebraica, indica la totalità delle donne di ogni tempo e luogo. La scenografia, allestita nello splendido tempio, non ha un punto focale come il presepio di Natale, ne ha tre, come tre chiavi per aprire al ricordo e alla completa comprensione il dramma più incredibile della storia dell'intero universo: la morte e risurrezione di Gesù con il preludio dell'ultima cena. E proprio nel Cenacolo, la stanza della cena d'addio, si sono consumati due eventi opposti. Il primo è stato un gesto d'amore illimitato: Gesù sapendo di dover "partire" decide di restare come pane per la loro fame di Dio. Il secondo è stato un gesto di tradimento: uno dei suoi lo vende per trenta denari. Il diorama presenta poi il Golgota, con il Messia inchiodato sulla sua croce: i lampi dei fulmini sembrano sottolineare anche lo sconcerto della natura. Infine, in primo piano, il sepolcro, vuoto, momento clou di quei tragici giorni e inizio dell'era cristiana.
A significare l'universalità dell'evento, sono pure presenti alcuni simboli che rappresentano i continenti da cui si snodano le processioni di donne verso il sepolcro della salvezza: un cammello e il deserto per l'Africa, il Colosseo per l'Europa, la Grande muraglia per l'Asia, alcuni grattacieli e la Statua della libertà per l'America, due moai dell'isola di Pasqua per l'Oceania. Le donne, vestite nei loro costumi nazionali, formano colorati gruppi processionali in cammino verso la "grotta" della risurrezione: meta degli uomini e delle donne di tutti i secoli e desiderio nascosto di scavalcare l'abisso della morte, superare la stridente sinfonia del nulla eterno, riconquistare il senso. "Dov'è, morte, la tua vittoria?".
Audace forse l'idea, ma non peregrina. Il sepolcro senza più l'inquilino è profezia: è vuoto per svuotare i sepolcri di tutto il mondo. Si muore: re e sudditi, giudici e avvocati, barboni e nobili, tecnici e cenciaioli, vecchi e giovani, donne e bambini, e papi e soldati e contadini. Ma tutti si risorge, senza titoli di sorta, in un corpo glorioso, illuminato da quell'incredibile evento toccato a Gesù e che tocca tutti gli uomini di tutti i tempi: evento cosmico, attuale e profetico; evento unico di ieri, oggi e domani. Trascinati dalle donne che vanno al sepolcro, tutti siamo incamminati verso quel punto omega, che è anche un punto alfa, nuovo inizio, attimo eterno, eternamente giovane.


(©L'Osservatore Romano 5 aprile 2012)




lunedì 2 aprile 2012

Vorrei darvii la possibilità di provare l'esperienza del nulla, del tempo, dello spazio, della luminosità e del vuoto..


domenica 1 aprile 2012

CAPIRSI CON IL CUORE

 


di ALESSANDRO D'AVENIA
Tu come hai fatto a capire che quella è la strada per te, il modo in cui giocarti la tua intera vita?».
Così mi ha scritto una ragazza di 16 anni, dopo aver finito di leggere «Cose che nessuno sa», mentre stavo scrivendo questo articolo.

Si può morire restando vivi. Si muore in molti modi e il più diffuso è quello della solitudine causata dall’assenza di possibilità di raccontare la propria storia, unica e irripetibile, a qualcuno. Amiamo e vogliamo essere amati perché ci sia almeno un interlocutore a cui poterla raccontare questa nostra benedetta vita così grande e fragile. Alcuni giovani muoiono da vivi, per assenza di racconto. Il mondo che dovrebbe ascoltare le loro vite, quello degli adulti, giudica la loro tela assurda, prima ancora che tratti e colori di quella storia si siano potuti dispiegare.
Si muore giovani, e non perché cari agli dei, ma perché disprezzati da loro. Non per una guerra cruenta, ma per mancanza di sguardo: una vocazione, una unicità, per essere ha bisogno di essere percepita.

La gioia di vivere - mi hanno insegnato i miei genitori e maestri - non dipende dal successo, ma dal fatto di occupare il proprio posto nel mondo, nella fedeltà a quello che siamo chiamati a essere e fare, sulla base dei nostri talenti e dei nostri limiti, la conoscenza dei quali ha il suo spazio privilegiato nell’infanzia, nell’adolescenza e nella prima giovinezza. Ciascuno di noi è la propria vocazione, la propria chiamata, il proprio compito. Sul tempio di Apollo a Delfi c’era scritto «Conosci te stesso». Da lì prese le mosse il pensiero occidentale ed è lì che bisogna guardare per questa crisi che è prima ancora che economica, una crisi di senso e di identità.

Eraclito disse che il carattere dell’uomo è il suo destino. Platone immaginò nel mito di Er che un «dàimon» ci affiancasse, perché il destino di ciascuno si compisse. Tutti sappiamo che qualcosa ci chiama a percorrere un certo cammino. Magari non si tratta di un annuncio eclatante, ma di piccole spinte (un libro, un film, un incontro, un fatto...) verso una strada, mentre eravamo persi in una selva di vie possibili. Ognuno di noi è irripetibile e la libertà, diceva Hannah Arendt, è «esserci per un nuovo inizio»: a ciascuno di noi è affidato il proprio sé come inizio, compito e compimento. Solo questo genera gioia di vivere: armatura forte di fronte ai fallimenti, spada che consente di non rifugiarsi, impauriti dalla vita, in autismi virtuali ed emotivi (dipendenze di ogni tipo).

Quando un adolescente cerca di spiegare la propria strada, senza rendersene conto porta la mano al cuore, come se intuisse il mistero di sé. È uno dei momenti del mio mestiere di insegnante che amo di più: quando si «accorano», si attorcigliano attorno al proprio cuore per ascoltarlo e spesso accade quando sono ascoltati. Sarà proprio la scoperta di questa unicità, percepita, preservata, ricordata, difesa da chi ci ama a dare senso al quotidiano vivere, anzi proprio a quel ripetitivo copione darà brillantezza e novità. Questo vale in ogni epoca e in ogni congiuntura storica, anche e soprattutto le crisi, durante le quali si è costretti ad andare all’essenziale. Questo ai giovani non può e non deve essere tolto: la bellezza che alberga nell’unicità di ciascuno ha bisogno di ricevere uno spazio, un riconoscimento, per non morire. Questo spazio è la famiglia, questo spazio è la scuola.

I ragazzi chiedono ogni giorno questo riconoscimento. Hanno nostalgia di uno sguardo che riconosca la loro unicità, che non giudichi e inscatoli la loro vita prima ancora di averla accettata nel suo straordinario, scomposto, contraddittorio emergere, che è già segno di ricerca. Questo mi chiedono ogni giorno: «Aiutami ad essere me stesso». I giovani di oggi hanno questa fame, io lo vedo, ma questa fame di sé, questa fame di destino, questa fame di futuro è stordita dalla sazietà del benessere. Se non ho fame di futuro il mio presente sparisce. E ha un sogno solo chi si ferma a considerare i mezzi che ha per attuarlo. Ma se invece di conoscermi sonnecchio per riuscire a digerire l’eccesso di portate di cui vengo ingozzato, sarà tardivo e brusco il risveglio: chi sono io e che ci faccio qui?

Se so chi sono e che ci faccio qui è perché a 16 anni ho trovato chi mi aiutasse a unire i pezzi ancora sconnessi del puzzle della mia vita e a percepirmi come compito da realizzare. A 16 anni ho deciso di diventare insegnante perché avevo un insegnante che amava non solo ciò che insegnava, ma amava la mia vita con la sua irripetibilità. A 16 anni ho deciso che volevo dedicare la vita ai ragazzi perché il professore di religione della mia scuola, padre Puglisi, si lasciò ammazzare per provare a cambiare le cose.

A 16 anni i miei genitori mi hanno messo alla prova, e io che li mandavo a quel paese come ogni adolescente, in realtà toccavo la reale consistenza dei miei sogni. Questi mentori mi hanno insegnato che non è il successo il criterio per essere sé stessi, ma che essere se stessi è il successo. Molti ragazzi rimangono paralizzati all’idea che non riusciranno a realizzare i loro sogni e questo è il veleno di una società che lavora per produrre, comprare e consumare, anziché lavorare per costruire un tempo buono e ampio per appartenersi e appartenere attraverso relazioni e amicizie vere.

Se il criterio di giudizio dell’agire è il successo, si rimane prigionieri di un destino crudele, che può schiacciare prima ancora di mettersi in movimento. Invece ciò che rende felici è realizzare la propria vocazione, indipendentemente dal riconoscimento «della folla». Si può avere successo come madre, come insegnante, come panettiere. Basta essere pienamente ciò a cui si è chiamati.

È la crisi ad aver rubato ai giovani il futuro? No. La crisi farà venire più fame, costringerà a non accontentarsi del benessere per essere felici. Il futuro ai giovani lo rubano gli adulti che non li guardano, gli adulti che occupano i posti di potere e se ne fregano del bene comune, gli adulti che fanno diga per l’ingresso di nuove leve negli ambienti di lavoro, gli adulti che non sono disposti a mettersi al servizio della generazione successiva passando il testimone. Come tanti Crono se ne stanno seduti a digerire i figli che loro stessi hanno messo al mondo.

I sistemi educativi dovrebbero riconsiderare le loro priorità. Cominciamo a credere nella unicità delle vite che ci sono affidate, serviamole togliendo qualcosa al nostro egoismo. La cena con i figli è più importante di una pratica di lavoro sbrigata la sera tardi, una moglie stanca dopo una giornata infernale è più importante di una partita di calcio in tv, un alunno è più del suo 4 o del suo 8...

Dalla famiglia e dalla scuola si può ripartire: non si richiedono riforme strutturali, ma riforme del cuore e della testa. In famiglia e a scuola ho imparato a occuparmi degli altri e a non pensare di essere il centro del mondo. In famiglia e a scuola ho scoperto la mia vocazione.
Lo aveva già scritto in pochi versi Dante quando il suo maestro, Brunetto Latini, gli disse: «Se tu segui tua stella/ non puoi fallire a glorïoso porto/ se ben m’accorsi ne la vita bella/ e s’io non fossi sì per tempo morto/ veggendo il cielo a te così benigno/ dato t’avrei a l’opera conforto».