lunedì 20 febbraio 2012

The Verve - bitter sweet symphony

E’ una sinfonia dolcemara questa vita
che cerca di far coincidere gli estremi
che ti fà diventare schiavo del denaro e poi morire
ti porterò sull’unica strada che io abbia mai percorso
lo sai, quella che ti conduce nei luoghi in cui
tutte le cose si ritrovano


sabato 18 febbraio 2012

STOLA E GREMBIULE




 Forse a qualcuno può sembrare un’espressione irriverente, l’accostamento della stola col grembiule può suggerire il sospetto di un piccolo sacrilegio.

Sì, perché, di solito, la stola richiama l’armadio della sacrestia, dove, con tutti gli altri paramenti sacri, profumata d’incenso, fa bella mostra di sé, con la sua seta e i suoi colori, con i suoi simboli e i suoi ricami. Non c’è novello sacerdote che non abbia in dono dalle buone suore del suo paese, per la prima messa solenne, una stola preziosa.
Il grembiule, invece, ben che vada, se non proprio gli accessori di un lavatoio, richiama la credenza della cucina, dove, intriso di intingoli e chiazzato di macchie, è sempre a portata di mano della buona massaia. Ordinariamente, non è articolo da regalo: tanto meno da parte delle suore per un giovane prete. Eppure è l’unico paramento sacerdotale registrato dal vangelo.

Il quale vangelo, per la messa solenne celebrata da Gesù nella notte del giovedì santo, non parla né di casule né di amitti, né di stole né di piviali. Parla solo di questo panno rozzo che il Maestro si cinse ai fianchi con un gesto squisitamente sacerdotale.
Chi sa che non sia il caso di completare il guardaroba delle nostre sacrestie con l’aggiunta di un grembiule tra le dalmatiche di raso e le pianete di camice d’oro, tra i veli omerali di broccato e le stole a lamine d’argento!
UN GREMBIULE RITAGLIATO DALLA STOLA

La cosa più importante, comunque, non è introdurre il “grembiule” nell’armadio dei “paramenti sacri”, ma comprendere che la stola e il grembiule sono quasi il diritto e il rovescio di un unico simbolo sacerdotale. Anzi, meglio ancora, sono come l’altezza e la larghezza di un unico panno di servizio; il servizio reso a Dio e quello offerto al prossimo. La stola senza il grembiule resterebbe semplicemente calligrafica. Il grembiule senza la stola sarebbe fatalmente sterile.

C’è, nel vangelo di Giovanni, una triade di verbi scarni, essenziali, pregnantissimi, che basterebbero da soli a sostenere il peso di tutta la teologia del servizio, e che illustrano la complementarietà della stola e del grembiule. I tre verbi sono: “si alzò da tavola”, “depose le vesti”, “si cinse un asciugatoio”.
SI ALZÒ DA TAVOLA

Significa due cose. Prima di tutto che l’eucarestia non sopporta la sedentarietà. Non tollera la siesta. Non permette l’assopimento della digestione. Ci obbliga a un certo punto ad abbandonare la mensa. Ci sollecita all’azione. Ci spinge a lasciare le nostre cadenze troppo residenziali per farci investire in gestualità dinamiche e missionarie il fuoco che abbiamo ricevuto.

Questo è il guaio: le nostre eucaristie si snervano spesso in dilettazioni morose, languiscono nei tepori del cenacolo, si sciupano nel narcisismo contemplativo e si concludono con tanta sonnolenza lusingatrice, che le membra si intorpidiscono, gli occhi tendono a chiudersi, e l’impegno si isterilisce.

Se non ci si alza da tavola, l’eucarestia rimane un sacramento incompiuto. La spinta all’azione è così radicata nella sua natura, che obbliga a lasciare la mensa anche quando viene accolta con l’anima sacrilega, come quella di Giuda: “Preso il boccone, egli subito uscì. Ed era notte”.

Ma “si alzò da tavola” significa un’altra cosa molto importante. Significa che gli altri due verbi “depose le vesti” e “si cinse i fianchi con l’asciugatoio” hanno valenza di salvezza soltanto se partono dall’eucarestia. Se prima non si è stati “a tavola”, anche il servizio più generoso reso ai fratelli rischia l’ambiguità, nasce all’insegna del sospetto, degenera nella facile demagogia, e si sfilaccia nel filantropismo faccendiero, che ha poco o nulla da spartire con la carità di Gesù Cristo.

Per i presbiteri ogni impegno vitale, ogni battaglia per la giustizia, ogni lotta a favore dei poveri, ogni sforzo di liberazione, ogni sollecitudine per il trionfo della verità devono partire dalla “tavola”, dalla consuetudine con Cristo, dalla familiarità con lui, dall’aver bevuto al calice suo con tutte le valenze del suo martirio. Da una intensa vita di preghiera, insomma.
Solo così il nostro svuotamento si riempirà di frutti, le nostre spoliazioni si rivestiranno di vittorie, e l’acqua tiepida che verseremo sui piedi dei nostri fratelli li abiliterà a percorrere fino in fondo le strade della libertà.
DEPOSE LE VESTI

Non so se sto forzando il testo. Ma a me pare che con questa espressione del vangelo venga offerto il paradigma dei nostri comportamenti sacerdotali, se vogliono collocarsi sul filo della logica eucaristica.

Chi sta alla tavola dell’eucarestia deve “deporre le vesti”.

Le vesti del tornaconto, del calcolo, dell’interesse personale, per assumere la nudità della comunione.

Le vesti della ricchezza, del lusso, dello spreco, della mentalità borghese, per indossare le trasparenze della modestia, della semplicità, della leggerezza.

Le vesti del dominio, dell’arroganza, dell’egemonia, della prevaricazione, dell’accaparramento, per ricoprirsi dei veli della debolezza e della povertà, ben sapendo che “pauper” non si oppone tanto a “dives” quanto a “potens”.

Dobbiamo abbandonare i segni del potere, per conservare il potere dei segni.
Non possiamo amoreggiare col potere. Non possiamo coltivare intese sottobanco, offendendo la giustizia, anche se col pretesto di aiutare la gente. Gli allacciamenti adulterini con chi manipola il danaro pubblico ci devono terrorizzare. Dovremmo rimanere amareggiati ogni qualvolta ci sentiamo dire che le nostre raccomandazioni contano. Che la nostra parola fa vincere un concorso. Che le nostre spinte sono privilegiate. Il bagliore dei soldi anche se promesso per le nostre chiese e non per le nostre tasche, non deve mai renderci complici dei disonesti, diversamente innescheremmo nella nostra vita una catena di anti-pasque che arresteranno il flusso di salvezza che parte dalla pasqua di Cristo.
In una parola, “depose le vesti” per noi sacerdoti deve significare divenire “clero indigeno” degli ultimi, dei poveri, dei diseredati, dei sofferenti, degli analfabeti, di tutti coloro che rimangono indietro o sono scavalcati dagli altri.
SI CINSE UN ASCIUGATOIO

Ed eccoci all’immagine che mi piace intitolare “la Chiesa del grembiule”. Sembra un’immagine un tantino audace, discinta, provocante. Una fotografia leggermente scollacciata di Chiesa. Di quelle che non si espongono nelle vetrine per non far mormorare la gente e per evitare commenti pettegoli, ma che tutt’al più si confinano in un album di famiglia, a disposizione di pochi intimi, magari delle signore che prendono il tè, con le quali soltanto è permesso sorridere su certe leggerezze di abbigliamento o su certe pose scattate in momenti di abbandono.

La Chiesa del grembiule non totalizza indici altissimi di consenso. Nell’hit parade delle preferenze, il ritratto meglio riuscito di Chiesa sembra essere quello che la rappresenta con il legionario tra le mani, o con la casula addosso. Ma con quel cencio ai fianchi, con quel catino nella destra e con quella brocca nella sinistra, con quel piglio vagamente ancillare, viene fuori proprio un’immagine che declassa la Chiesa al rango di fantesca.


Nel nostro linguaggio canonico, ai tempi del seminario, c'era una espressione che oggi, almeno così pare, sta fortunatamente scomparendo: "diritti di stola". E c'erano anche delle sottospecie colorate: "stola bianca" e "stola nera". Ci sarebbe da augurarsi che il vuoto lessicale lasciato da questa frase fosse compensato dall'ingresso di un'altra terminologia nel nostro vocabolario sacerdotale: "doveri di grembiule"! Questi doveri mi pare che possano sintetizzarsi in tre parole chiave: condivisione, profezia, formazione politica.

Speriamo che i seminari formino i futuri presbiteri ai "doveri di grembiule" non solo con la stessa puntigliosità con cui li informavano sui "diritti di stola", ma con la stessa tenacia, col medesimo empito celebrativo e con l'identico rigore scientifico con cui li preparano ai loro compiti liturgici.

la col grembiule può suggerire il sospetto di un piccolo sacrilegio.

Sì, perché, di solito, la stola richiama l’armadio della sacrestia, dove, con tutti gli altri paramenti sacri, profumata d’incenso, fa bella mostra di sé, con la sua seta e i suoi colori, con i suoi simboli e i suoi ricami. Non c’è novello sacerdote che non abbia in dono dalle buone suore del suo paese, per la prima messa solenne, una stola preziosa.
Il grembiule, invece, ben che vada, se non proprio gli accessori di un lavatoio, richiama la credenza della cucina, dove, intriso di intingoli e chiazzato di macchie, è sempre a portata di mano della buona massaia. Ordinariamente, non è articolo da regalo: tanto meno da parte delle suore per un giovane prete. Eppure è l’unico paramento sacerdotale registrato dal vangelo.

Il quale vangelo, per la messa solenne celebrata da Gesù nella notte del giovedì santo, non parla né di casule né di amitti, né di stole né di piviali. Parla solo di questo panno rozzo che il Maestro si cinse ai fianchi con un gesto squisitamente sacerdotale.
Chi sa che non sia il caso di completare il guardaroba delle nostre sacrestie con l’aggiunta di un grembiule tra le dalmatiche di raso e le pianete di camice d’oro, tra i veli omerali di broccato e le stole a lamine d’argento!
UN GREMBIULE RITAGLIATO DALLA STOLA

La cosa più importante, comunque, non è introdurre il “grembiule” nell’armadio dei “paramenti sacri”, ma comprendere che la stola e il grembiule sono quasi il diritto e il rovescio di un unico simbolo sacerdotale. Anzi, meglio ancora, sono come l’altezza e la larghezza di un unico panno di servizio; il servizio reso a Dio e quello offerto al prossimo. La stola senza il grembiule resterebbe semplicemente calligrafica. Il grembiule senza la stola sarebbe fatalmente sterile.

C’è, nel vangelo di Giovanni, una triade di verbi scarni, essenziali, pregnantissimi, che basterebbero da soli a sostenere il peso di tutta la teologia del servizio, e che illustrano la complementarietà della stola e del grembiule. I tre verbi sono: “si alzò da tavola”, “depose le vesti”, “si cinse un asciugatoio”.
SI ALZÒ DA TAVOLA

Significa due cose. Prima di tutto che l’eucarestia non sopporta la sedentarietà. Non tollera la siesta. Non permette l’assopimento della digestione. Ci obbliga a un certo punto ad abbandonare la mensa. Ci sollecita all’azione. Ci spinge a lasciare le nostre cadenze troppo residenziali per farci investire in gestualità dinamiche e missionarie il fuoco che abbiamo ricevuto.

Questo è il guaio: le nostre eucaristie si snervano spesso in dilettazioni morose, languiscono nei tepori del cenacolo, si sciupano nel narcisismo contemplativo e si concludono con tanta sonnolenza lusingatrice, che le membra si intorpidiscono, gli occhi tendono a chiudersi, e l’impegno si isterilisce.

Se non ci si alza da tavola, l’eucarestia rimane un sacramento incompiuto. La spinta all’azione è così radicata nella sua natura, che obbliga a lasciare la mensa anche quando viene accolta con l’anima sacrilega, come quella di Giuda: “Preso il boccone, egli subito uscì. Ed era notte”.

Ma “si alzò da tavola” significa un’altra cosa molto importante. Significa che gli altri due verbi “depose le vesti” e “si cinse i fianchi con l’asciugatoio” hanno valenza di salvezza soltanto se partono dall’eucarestia. Se prima non si è stati “a tavola”, anche il servizio più generoso reso ai fratelli rischia l’ambiguità, nasce all’insegna del sospetto, degenera nella facile demagogia, e si sfilaccia nel filantropismo faccendiero, che ha poco o nulla da spartire con la carità di Gesù Cristo.

Per i presbiteri ogni impegno vitale, ogni battaglia per la giustizia, ogni lotta a favore dei poveri, ogni sforzo di liberazione, ogni sollecitudine per il trionfo della verità devono partire dalla “tavola”, dalla consuetudine con Cristo, dalla familiarità con lui, dall’aver bevuto al calice suo con tutte le valenze del suo martirio. Da una intensa vita di preghiera, insomma.
Solo così il nostro svuotamento si riempirà di frutti, le nostre spoliazioni si rivestiranno di vittorie, e l’acqua tiepida che verseremo sui piedi dei nostri fratelli li abiliterà a percorrere fino in fondo le strade della libertà.
DEPOSE LE VESTI

Non so se sto forzando il testo. Ma a me pare che con questa espressione del vangelo venga offerto il paradigma dei nostri comportamenti sacerdotali, se vogliono collocarsi sul filo della logica eucaristica.

Chi sta alla tavola dell’eucarestia deve “deporre le vesti”.

Le vesti del tornaconto, del calcolo, dell’interesse personale, per assumere la nudità della comunione.

Le vesti della ricchezza, del lusso, dello spreco, della mentalità borghese, per indossare le trasparenze della modestia, della semplicità, della leggerezza.

Le vesti del dominio, dell’arroganza, dell’egemonia, della prevaricazione, dell’accaparramento, per ricoprirsi dei veli della debolezza e della povertà, ben sapendo che “pauper” non si oppone tanto a “dives” quanto a “potens”.

Dobbiamo abbandonare i segni del potere, per conservare il potere dei segni.
Non possiamo amoreggiare col potere. Non possiamo coltivare intese sottobanco, offendendo la giustizia, anche se col pretesto di aiutare la gente. Gli allacciamenti adulterini con chi manipola il danaro pubblico ci devono terrorizzare. Dovremmo rimanere amareggiati ogni qualvolta ci sentiamo dire che le nostre raccomandazioni contano. Che la nostra parola fa vincere un concorso. Che le nostre spinte sono privilegiate. Il bagliore dei soldi anche se promesso per le nostre chiese e non per le nostre tasche, non deve mai renderci complici dei disonesti, diversamente innescheremmo nella nostra vita una catena di anti-pasque che arresteranno il flusso di salvezza che parte dalla pasqua di Cristo.
In una parola, “depose le vesti” per noi sacerdoti deve significare divenire “clero indigeno” degli ultimi, dei poveri, dei diseredati, dei sofferenti, degli analfabeti, di tutti coloro che rimangono indietro o sono scavalcati dagli altri.
SI CINSE UN ASCIUGATOIO

Ed eccoci all’immagine che mi piace intitolare “la Chiesa del grembiule”. Sembra un’immagine un tantino audace, discinta, provocante. Una fotografia leggermente scollacciata di Chiesa. Di quelle che non si espongono nelle vetrine per non far mormorare la gente e per evitare commenti pettegoli, ma che tutt’al più si confinano in un album di famiglia, a disposizione di pochi intimi, magari delle signore che prendono il tè, con le quali soltanto è permesso sorridere su certe leggerezze di abbigliamento o su certe pose scattate in momenti di abbandono.

La Chiesa del grembiule non totalizza indici altissimi di consenso. Nell’hit parade delle preferenze, il ritratto meglio riuscito di Chiesa sembra essere quello che la rappresenta con il legionario tra le mani, o con la casula addosso. Ma con quel cencio ai fianchi, con quel catino nella destra e con quella brocca nella sinistra, con quel piglio vagamente ancillare, viene fuori proprio un’immagine che declassa la Chiesa al rango di fantesca.


Nel nostro linguaggio canonico, ai tempi del seminario, c'era una espressione che oggi, almeno così pare, sta fortunatamente scomparendo: "diritti di stola". E c'erano anche delle sottospecie colorate: "stola bianca" e "stola nera". Ci sarebbe da augurarsi che il vuoto lessicale lasciato da questa frase fosse compensato dall'ingresso di un'altra terminologia nel nostro vocabolario sacerdotale: "doveri di grembiule"! Questi doveri mi pare che possano sintetizzarsi in tre parole chiave: condivisione, profezia, formazione politica.

Speriamo che i seminari formino i futuri presbiteri ai "doveri di grembiule" non solo con la stessa puntigliosità con cui li informavano sui "diritti di stola", ma con la stessa tenacia, col medesimo empito celebrativo e con l'identico rigore scientifico con cui li preparano ai loro compiti liturgici.

Don Tonino Bello



giovedì 16 febbraio 2012

IO TI CHIESI

Io ti chiesi perché i tuoi occhi
si soffermano nei miei
come una casta stella del cielo
in un oscuro flutto.

Mi hai guardato a lungo

come si saggia un bimbo con lo sguardo,
mi hai detto poi, con gentilezza:
ti voglio bene, perché sei tanto triste.

Hermann Hesse 


lunedì 13 febbraio 2012

BRASILE : DOPO L'INGANNO....LA BEFFA


Durante la campagna elettorale che l’ha portata a vincere poco più di un anno fa le elezioni presidenziali brasiliane, Dilma Rousseff, la mulher di Lula come veniva allora chiamata (mulher significa donna, ma anche moglie), un passato da guerrigliera e una ( improbabile… )  laurea in economia  , ha più volte sostenuto di  essere cattolica e contraria all’aborto. Il Brasile, nonostante la recente e virulenta aggressione delle sette ( fenomeno abbastanza diffuso in tutta l’America Latina ) è ancora un paese a maggioranza cattolica. Per questo motivo la  campagna elettorale è stata molto  accesa, e si è parlato tantissimo di bioetica e sopratutto di aborto. L’avversario di Dilma è stato il leader del centrodestra José Serra, che l’ha accusata  di essersi dimostrata in precedenza favorevole alla depenalizzazione dell’aborto. Così la Rousseff ha dovuto ricordare a tutti il suo cattolicesimo e ha messo nero su bianco la sua promessa di non presentare nessuna legge che legalizzi l’aborto o il matrimonio tra omosessuali: «Se sarò eletta presidente della Repubblica – si è impegnata per iscritto davanti ai cristiani di tutto il Brasile – non prenderò iniziative per modificare l’attuale legislazione che vieta l’aborto e protegge la famiglia». Ma Serra l’ha subito accusata di puro opportunismo.
Così si espresse allora il quotidiano Avvenire : “Che si tratti di scelta opportunistica  «oppure di legittima difesa nei confronti di chi, in piena campagna elettorale, ha ripescato vecchie dichiarazioni della Rousseff per metterla in imbarazzo, il documento siglato dalla candidata del centrosinistra rappresenta comunque il segno di una grande novità: mai in una campagna elettorale per la presidenza del Brasile, i temi etici hanno avuto tanto peso. Una conferma è venuta dal discorso che il Papa ha pronunciato giovedì, in cui ha richiamato l’importanza di sostenere e votare i politici che difendono la vita».
Purtroppo e malgrado le grandiose premesse, la Presidente Roussef giusto qualche giorno fa ha nominato Eleonora Menicucci de Oliveira, sua ex compagna di prigione durante la dittatura militare, come nuovo ministro della Segreteria per le politiche femminili. Militante di estrema sinistra, femminista , leader del Partito Comunista dei lavoratori nonchè accanita sostenitrice dell'aborto. La sensazione è che la Presidente stia ora gradualmente cedendo al ricatto delle lobby abortiste e omosessuali. La nomina di Eleonora Menicucci de Oliveira getta un’ombra inquietante sulle reali dichiarazioni pro-life rilasciate durante la campagna elettorale. Menicucci ha ammesso di di aver abortito lei stessa due volte, in palese violazione  alla legge che ne vieta la pratica nel suo paese, eccetto che nei casi di stupro.
Ha anche riconosciuto la sua stessa ambiguità sessuale, dichiarando inoltre  in un'intervista del 2007: " sono molto orgogliosa di mia figlia, che è gay e che ha avuto un figlio con l'inseminazione artificiale."
Menicucci sostiene che l’aborto è una semplice questione di salute riproduttiva.
Non c’è dunque da meravigliarsi se i cattolici brasiliani siano ora furibondi . Uno dei più famosi blogger brasiliani Reinaldo Azevedo sostiene che "La nomina di Eleonora è un segnale di incoerenza   del presidente", " Dilma è stata costretta a presentarsi come un 'cattolico' difensore della 'vita' e anche un devoto di 'Nostra Signora di Aparecida,' in modo da non perdere le elezioni del 2010. Ora, nominando sua ministra una fervente abortista Dilma rende giustizia alla sua tradizione pro-aborto e anti-famiglia ".


domenica 12 febbraio 2012

FRATELLI DI UN MONDO LIQUIDO


LA NECESSITÀ DEI FRANCESCANI DI CONTRIBUIRE ALLE SCELTE DELLA POLITICA
di Giuseppe Pagani francescano secolare, consigliere regionale dell'Emilia-Romagna

Oggi più che mai cercare di spiegare quale sia il senso francescano della sce1ta di servire nell'impegno politico-sociale è certamente cosa complicata .nei" giorni cattivi" e di barbarie che stiamo vivendo e per la imperante cultura anti-politica che attraversa il nostro Paese. C'è però una "missione all'impegno  nella polis" da cui il cristiano non può prescindere: il magistero della Chiesa, ed in particolare il concilio Vaticano II con i documenti Lumen Gentium 31, Apostolicam Auctuositatem 14, Gaudium et Spes, definisce l'urgenza di una pre­senza specifica e propria dei laici cri­stiani nel sociale, nella vita pubblica, nel volontariato. In questo quadro la chiamata a costruire un mondo più fra­terno è ribadita e sostenuta, oserei dire incoraggiata, dalla regola dell'Ofs lad­dove l'art. 15 invita «i francescani ad assumersi una responsabilità, sia come singoli che come fraternità».
C'è innanzi tutto una chiamata indi­viduale, un'assunzione di responsabili­tà a cui i francescani sono chiamati: «testimoniare con la propria vita» uno stile altro di essere "dentro alla compa­gnia degli uomini" nelle vicende della storia, portandone in pieno, laicamen­te, la responsabilità delle scelte, ma c'è anche una chiamata comune, anche se più faticosa da realizzare, proprio per il pluralismo di scelte politiche presen­ti e che devono essere rispettate dentro la fraternità.
Nella società e nella comunità degli uomini, luogo e tempo teologico della santificazione, i francescani sono chia­mati ad iniziative coraggiose e profetiche e continuare ad essere "concreatori" della Città dell'uomo.

Attenti lettori della storia
La fase che stiamo vivendo ci con­segna un mondo completamente nuo­vo in cui sono state messe in crisi tutte le organizzazioni sociali. I sociologi parlano di frammentazione dell'identità sociale, atomizzazione della società, incertezza dell' esistenza, insostenibi­lità socio-ambientale, limiti dello svi­luppo, fragilità delle città, perdita del senso di comunità, solitudine delle famiglie e dell'emergere di una mol­titudine di "vulnerabili" a rischio di emarginazione sociale. Non è più possibile usare le stesse categorie e gli stessi paradigmi che avevamo sempre usato nell' analizzare la società; per, come dice la regola dell'Ofs, «promuovere la giustizia nel campo della vita politica con scelte coerenti con la fede» ed immaginare ipotesi di soluzione, occorre capire i cambiamenti, darsi un tempo per la riflessione e lo studio. In tal senso, nell'attuale situazione di una "democrazia infetta" e di una politica ammalata, vi è l'urgenza, non più delegabile, di riproporre il pensiero e lo stile con i quali il francescanesi­mo secolare ha contribuito, in snodi importanti della storia del nostro pae­se, in modo decisivo e profetico. Fare politica, oggi, dentro il "disastro antro­pologico" di questo tempo, così come è stato definito dal cardinale Bagnasco, necessita della presa in carico di alcune evidenze, che è urgente rimettere al centro dell'azione politica. Non è più rinviabile la ridefinizione di un nuovo umanesimo, vi è la necessità cioè di umanizzare la politica e ridare un ruo­lo alla relazione, innanzi tutto attraver­so l'educazione all'ascolto, all'apertura verso l'altro. Occorre infatti recuperare una sapienza della prassi che consiste nel non trincerarsi in una visione omo­genea alla fede, integralista e chiusa. La fede è luce alla ragione, ed è con la nostra diretta responsabilità che agia­mo azioni conseguenti ed ispirate dalla fede, nella ricerca di affermare valori condivisi da tutti, facendosi carico del­le diversità culturali e religiose presenti nella società.
La crisi che stiamo attraversando ha creato spesso una società di depressi, occorre allora essere testimoni della speranza, generare la speranza è l'uni­co modo per sconfiggere la disperazio­ne (che alimenta spesso il fanatismo).
Riproporre in politica la scelta pre­ferenziale per i poveri e gli emarginati, come espressione della nostra minori­tas, significa superare il mero seppur importante esercizio della carità con un impegno a sostegno di politiche dirette per ridurre le disuguaglianze, per sostenere le famiglie, per rimuovere le cause della povertà, per ridistribuire il reddito, come presupposti per un vero ampliamento della libertà e per il raggiungimento di una democrazia reale e non solo formale.
L'attività politica però richiede anche una capacità di vigilanza su se stessi, sulla propria integrità. Si tratta cioè di avere sempre il senso dell' am­biguità e pericolosità del potere e ricer­care gli strumenti, gli abiti virtuosi, per rimanere fedeli all'ispirazione cristia­na, alla dignità umana. Occorre una vita activa (una vita interiore) una vigi­lanza su se stessi, sul male, sul pote­re, memori, come ci ammonisce san Francesco che «noi possediamo solo i nostri peccati e nostri vizi» (Rnb 17,7).
C'è una via, un metodo, una pedago­gia per una salvaguardia dai mali del potere, dal narcisismo, dall' ossessio­ne dell' audience, dalla "pornografia dell'anima": occorre darsi un ordine, una stabilità interiore, una disciplina.

Il salvagente della fraternità
Occorre ritornare ad una maggiore conoscenza di sé e fare dell'impegno politico-sociale una parentesi della pro­pria vita per poi ritornare alla propria professione, per non vivere della politica.
Dove trovare la forza per vivere "dentro, vicino al fuoco della politi­ca" mantenendo lo stile, l'ispirazione valoriale, se non nella perseveranza di un cammino interiore sorretto da una Comunità? La Fraternità diviene allo­ra luogo vitale che sostiene, richiama, corregge colui che è impegnato nella costruzione della polis. La domanda vera è se nelle nostre fraternità Ofs ci aiutiamo ad incorag­giarci nel bene (Cost. 26,2), ci edu­chiamo, cioè, ad avere il senso del limite nostro e delle cose del mondo, come grande presupposto per la libertà,  perché alla fine dobbiamo ricordare  che, come ci ammonisce la Lettera a I Diogneto, «siamo cittadini del cielo». ..

giovedì 9 febbraio 2012

E IL POVERELLO DIVENNE ICONA ...


- di Grado Giovanni Merlo, storico

La fede nei sacerdoti

Il rapporto di frate Francesco d'Assisi con la Chiesa romana è chiaro sin dagli inizi: si tratta di una scelta consapevole che rinvia a una «fede» piena nella tradizione di orto­dossia "cattolica" da essa tramandata e garantita. La Chiesa romana traman­dava e garantiva anche quel sacerdozio che unico poteva amministrare il «san­tissimo corpo e il santissimo sangue» del Figlio di Dio: di qui la «fede nei sacerdoti che vivono secondo la for­ma della santa Chiesa romana a cau­sa del loro ordine». Queste profonde e irrinunciabili convinzioni risultano doni che la Grazia gli aveva fatto. D'altronde, sempre per opera della Grazia, egli aveva deciso di «vivere secondo il modello del santo vangelo» e di chiedere al «signor papa» di confer­mare il suo proposito di vita. Non solo: la sottomissione al vertice della cat­tolicità è sottolineata al termine della Regola bollata del 1223, là dove si pre­cisa che «per obbedienza [...] i ministri debbano chiedere al signor papa uno  dei cardinali della santa Chiesa roma­na, il quale sia governatore, protettore e correttore di questa fraternità, affin­ché sempre sudditi e sottomessi ai piedi della stessa santa Chiesa, stabiliti nella fede cattolica, osserviamo la povertà e l'umiltà e il santo vangelo del Signor nostro Gesù Cristo, che fermamente abbiamo promesso».
Non vi possono essere dubbi sul rapporto di frate Francesco e dei suoi "fratelli" con il papato. La richiesta del governo, della protezione e della correzione da parte di un cardinale, rappresentante del vertice ecclesiastico, appare una delle condizioni affinché i frati minori potessero realizzare la propria soggezione e subordinazione, vale a dire fossero "stabili" nel seguire la povertà, l'umiltà e la "buona novella" di Gesù Cristo. L'evangelismo di frate Francesco e il sacerdotalismo della Chiesa romana non si escludono a vicenda né contrastano: piuttosto, si integrano e si completano. In estrema e rapida sintesi, si potrebbe affermare che in frate Francesco la cristologia fa tutt'uno con l'ecclesiologia, in quanto il sacerdozio cattolico-romano è esal­tato da un assoluto amore per il Cristo e dalla connessa passione eucaristica che pretendeva la concretezza di un segno divino, quale era costituito da «il santissimo corpo e il santissimo sangue» del Figlio di Dio.

La santità al servizio della Chiesa.
 Qualche problema nasce quando si considerino i rapporti della Chiesa romana con frate Francesco. Ne sappia­mo poco e quel che sappiamo si riferisce in larga prevalenza a colui che nel 1227 diventerà papa Gregario IX. Questi, quando ancora era cardinale vescovo di Ostia, nel 1220 divenne pure cardinale protettore della fraternità dei minori dietro esplicita richiesta a papa Onorio III, e dietro precisa scelta da parte dello stesso Francesco. In seguito, la presenza di Ugo o Ugolino d'Ostia accompagnerà la definizione istituzionale dell'ordine dei frati minori. Lo dichiara lo stesso Gregorio IX, il quale afferma inoltre di ben conoscere la intentio», i termini fon­dativi della «proposta religiosa» di san Francesco. In generale, non sembrano esserci stati contrasti di un qualche rilie­vo tra il Poverello e il suo cardinale: con­trasti che invece quest'ultimo ebbe in alcune circostanze con Chiara d'Assisi.
Sufficientemente certo è che Gregorio IX ebbe consapevolezza del potenziale valore della «santità» di Francesco: una santità che da lui venne finalizzata alle esigenze di autodifesa ed esaltazione della Chiesa romana in un momento travagliato della sua esistenza. La san­tità di Francesco non solo riceveva un riconoscimento istituzionale, ma era da integrare nel complesso organismo ecclesiastico e perciò da celebrare in termini compatibili con caratteri e fina­lità del papato della prima metà del Duecento.
Nell'estate del 1228 frate Francesco divenne per sempre san Francesco, inserito nel catalogo dei santi e, perciò, immesso nel grande disegno religioso ( e di connesso "dominio del mondo") che aveva il suo centro nel papato. Si potrebbe persino dire che, prima che il santo dell'Ordine che da lui era derivato, Francesco fosse un santo di Gregorio IX: il quale, agli inizi del suo pontificato, necessitava di santi "nuovi" da proporre come modelli di una rinnovata religiosità rivolta alle esigenze e al sostegno della Chiesa di Roma. Lo dimostra, tra l'altro, il progetto di edificazione della nuova chiesa di San Francesco in Assisi, alla cui realizzazione il papa destinò frate Elia, sino al 1227 alla guida della "fraternità" dei minori per volontà di frate Francesco. In pochissimi anni sarà costruito l'edificio sacro appositamente pensato per la conservazione del corpo di un santo "locale", ma che dal papa veniva proiettato in una dimensione universale. Per il santo di Assisi si era eretto un santuario dalle straordinarie capacità di attrazione e dalle efficacissime valenze simboliche. Più di uno studioso ha pensato - for­ se non a torto - che si trattasse di un "monumento sacro" da contrapporre ai "monumenti laici" dell'imperatore Federico II, l'avversario della Chiesa romana allora - sul piano sia ideale sia pratico - più forte e pericoloso.
La novità normalizzata
A questo punto sarebbe necessario presentare i tratti della santità di frate Francesco quali vengono delineati nelle due lettere pontificie del 1228 (la Sicut phialae aureae e la Mira circa nos) in cui si motivano le ragioni della canonizzazione del Poverello. Qual è l'immagine di san Francesco fissata in quei documenti? Quali sono gli effetti di quella "nuova" santità? La prima domanda richiederebbe un discorso non breve e articolato. Occorre limi­ tarsi alla seconda domanda, alla quale si può rispondere che la «vita e fama chiarissima» di frate Francesco, dono della Grazia divina che aveva ripro­dotto in lui solidi modelli veterote­stamentari (quali Sansone, Abramo e Giacobbe) , erano state e saranno capaci di chiamare alla conversione i peccatori con ricadute molto positive nell' «irrobustire la fede della Chiesa» e nel «confutare l'eretica pravità». La "novità" costituita da frate Francesco trovava la sua "normalizzazione" attraverso la sua santificazione. La sua unica e straordinaria esperienza cristiana è ricondotta all'unicità e alla straordinarietà proprie di "ogni" santo, che aveva celebrato la Chiesa e che la Chiesa cattolico-romana celebrava (e
avrebbe continuato a celebrare). ..

in “ Messaggero Cappuccino “ gennaio 2012