sabato 31 marzo 2012

Lourdes, Resurrezione e pubblicità ingannevole....


Miracoli vietati e miracoli riconosciuti


di SILVIA GUIDI
La diffida a non abusare della credulità popolare non è stata inviata - per conoscenza, in quanto Persona informata dei fatti - anche al Creatore, solo perché non è facile reperirne l'indirizzo; ma quando questo piccolo inconveniente burocratico sarà risolto anche Dio potrebbe trovarsi sul banco degli imputati (per abuso di potere, lesa maestà laica o una qualche altra accusa tratta dal fertile genere letterario della fantagiurisprudenza).
Non è la prima volta che succede, come la storia della salvezza ci ricorda, ma stavolta la vicenda ha accenti tragicomici: l'intervento imprevedibile della Grazia è stato giudicato incompatibile con le leggi del codice pubblicitario inglese. "In Gran Bretagna - spiega Gianfranco Amato, segnalando in Rete uno degli esiti più surreali della censura postmoderna - sulla tutela dei consumatori vigila l'Advertising Standards Authority (Asa): e recentemente ha proibito all'associazione cristiana Healing On The Streets (Hots) di dire pubblicamente che attraverso la preghiera è possibile guarire". A Bath, l'associazione Hots è composta da volontari che pregano per i malati, rendendo nota la propria attività su un sito web; secondo l'Autority si tratta di pubblicità ingannevole, "illegittima e irresponsabile", colpevole di "indurre false speranze". Nonostante le intimidazioni subite, Paul Skelton, il fondatore di Hots, ha deciso di ricorrere contro la decisione dell'Asa: altrimenti, di questo passo, "in futuro sarà ancora lecito affermare che i miracoli esistono?". Per ora nessun commento è arrivato dalla Catholic Association, che da più di cento anni organizza pellegrinaggi a Lourdes, ma è evidente che l'esistenza stessa della piccola città dei Pirenei, portando alle estreme conseguenze la logica dell'Asa, potrebbe rappresentare un vulnus insanabile nella tutela dei diritti del consumatore, e, come tale, essere presto dichiarata illegale; è un luogo in cui fatti inspiegabili continuano pervicacemente a succedere, in barba a qualsiasi normativa vigente.
Un luogo sovversivo, questo santuario mariano ottocentesco, che non accenna a passare di moda, e in cui tutto o quasi tutto, dalle realtà visibili a quelle invisibili, si può rovesciare da un momento all'altro nel suo opposto. A partire dalle tante guarigioni che il dottor Alessandro De Franciscis, presidente del locale Bureau des constatations médicales, preferisce definire "inspiegate" piuttosto che "inspiegabili" ("sarebbe un atto di presunzione da parte mia" dice a Stefano Lorenzetto in un'intervista pubblicata su "il Giornale" dello scorso 25 marzo).
Anche la carriera di De Franciscis, pediatra napoletano cinquantaseienne specializzato in epidemiologia ad Harvard, è stata ribaltata dall'incontro con la grotta di Massabielle. "Credo di essere il medico più buffo del pianeta - continua il dottore - la gente viene da me non perché sta male ma per dirmi che è guarita. Nel Bureau parliamo di medicina, non di fede o di filosofia. Ciascun medico anche se è ateo, può consultare la cartella clinica e dare un'opinione sul caso. E c'è la massima collegialità nelle decisioni. Agisco come il dottor House: ascolto le varie diagnosi e traggo le conclusioni".
Quali sono i criteri applicati dalla Chiesa per dichiarare un miracolo? "Gli stessi fissati dal cardinale Prospero Lambertini, eletto Papa nel 1740 col nome di Benedetto XIV, quello che concesse l'imprimatur alle opere di Galileo Galilei - risponde il medico - sette criteri di assoluto buon senso, fissati per mettere un freno agli abusi dei nobili, nel cui albero genealogico si rintracciava sempre qualche santo o beato per intervenuto miracolo. Primo: che la malattia abbia una prognosi grave. Secondo: che la diagnosi sia certa. Terzo: che la malattia sia organica. Quarto: che nessuna terapia possa spiegare la guarigione. Quinto: che la guarigione sia istantanea, inattesa e improvvisa. Sesto: che sia completa. Settimo: che sia durevole nel tempo". E la comunità scientifica internazionale accetta questi criteri? "Non c'è conflitto tra fede e scienza. Se io le dico che la signora Danila Castelli era affetta da feocromocitoma, questo è un fatto provato dai vetrini istologici e dalle cartelle cliniche degli istituti universitari dov'era stata ricoverata senza esito alcuno".
"Dal 1858 a oggi, in media un miracolo ogni 840 giorni..." sottolinea Lorenzetto. "Tutto vero, ma sarebbe un errore - gli risponde De Franciscis - soffocare nelle statistiche gli avvenimenti di Lourdes". Il suo "cuore" non sono le guarigioni; "il miracolo di Lourdes è Lourdes". Meglio dirlo adesso in modo esplicito, prima che scriverlo diventi fuorilegge.


(©L'Osservatore Romano 31 marzo 2012)


giovedì 29 marzo 2012

Salmo 105




42 Così si è ricordato della sua parola santa,
data ad Abramo suo servo.

43 Ha fatto uscire il suo popolo con esultanza,
i suoi eletti con canti di gioia.

44 Ha dato loro le terre delle nazioni
e hanno ereditato il frutto della fatica dei popoli,

45 perché osservassero i suoi decreti
e custodissero le sue leggi.

mercoledì 28 marzo 2012

IL TEMPO

La vita è il dovere che portiamo per realizzarlo in casa.
Quando si guarda, già sono le sei!
Quando per guardare, già è venerdì!
Quando si guarda, già è Natale...
Quando si guarda, già è passato l'anno...
Quando si guarda perdemmo l'amore della nostra vita.
Quando si guarda passarono 50 anni!

Ora è troppo tardi per riprovare...
Se mi fosse dato un giorno, un' altra opportunità, nemmeno lo guardavo l'orologio.
Sarei sempre andato avanti e avrei buttato sul cammino la buccia dorata e inutile delle ore...
Avrei tenuto stretto l'amore che mi sarebbe stato di fronte e avrei detto che lo amo...
E c'è ancora: non evitare di fare qualcosa che ti piace solo per mancanza di tempo.
Non evitare di avere persone al tuo lato per pura paura di essere felice.
L'unica mancanza che sentirai sarà di questo tempo che, infelicemente, non tornerà mai più.


Mario Quintana








domenica 25 marzo 2012

Vincendo l'idolatria delle mani….

di Angelo Casati sacerdote della Chiesa di Milano.

La Bibbia lega alla festa l'imma­gine del riposo. I rabbini com­mentando l'opera di Dio nei sei giorni della creazione affermano che l'opera era incompiuta: mancava il sabato. Il sabato portò quel riposo di cui il mon­do, creato da Dio, sentiva la mancanza. Nel racconto della Genesi Dio benedi­ce il settimo giorno, la festa, e quando Dio benedice accade la fecondità. Mi chiedo se, cancellando la distinzione della festa perché tutti i giorni alla fin fine sono uguali, non si interrompa malauguratamente la fecondità dell'esi­stenza. La fecondità della festa sta nel generare il tempo della pace, dello shalom, della vita nella sua pienezza. Possiamo allora capire perché Gesù, curando gli infermi di sabato, onorasse il sabato nella sua anima segreta più profonda, quella di creare armonia.
Oggi assistiamo a un attentato deva­stante alla creazione, forse ne siamo diventati tutti più coscienti, ma non ci sfiora con altrettanta consapevolezza il pensiero che un attentato lo stia suben­do anche l'ultima delle cose che Dio ha creato e benedetto, la festa come pienezza dei giorni. Riprendendo le parole del Qoelet potremmo forse dire : C'è un tempo per lavorare e un tempo per riposare". Tra le realtà da restituire alla limpidezza delle origini c'è anche la festa. Custodire nella vita il tempo del vero riposo, rompendo il ritmo vorticoso delle nostre giornate è come riconoscere nei fatti che, non noi, ma Dio è insostituibile e che non tutto sta nelle nostre mani. Noi ci fermiamo e il mondo continua ad esistere, perché è lui, Dio, a portare a compimento l'opera delle nostre mani. La festa ci consente di sfuggire all'idolatria delle nostre mani, custodire il tempo del riposo ci consente di non impoverire l'orizzonte della vita su quello del­la "produzione". Rincorrendola quasi fosse un assoluto, dimenticando che noi siamo molto di più di ciò che produciamo. Con il riposo onoriamo noi stessi e gli altri, strappando noi stessi e gli altri all'immagine, profon­damente triste, di uomini e donne che se ne vanno piegati e ingrigiti, quasi fossero votati a un lavoro da schiavi.
Difendendo il tempo del riposo per noi e per gli altri diamo riconoscimen­to alla dignità nostra e di ogni essere umano. Tu non lavori come uno schia­vo. Tu sei un essere libero.
Raramente ci è stato ricordato che tra i decreti del Concilio di Nicea (325 d.c.), il canone 20 faceva divie­to di inginocchiarsi nelle celebrazioni domenicali. La motivazione era que­sta: tu sei un uomo libero e stai in piedi davanti a Dio con la tua libertà. Quasi a dire che l'Eucaristia è fonte di donne e uomini "alzati" e non "abbassati", fonte di vite libere, è un pane che ci dà la forza di sfuggire al rimpianto di una terra di schiavitù. Quando Mosè invita ad osservare le dieci parole, a proposito del non lavorare di sabato, il testo sorprendentemente specifica: «né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bue, né il tuo asino, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te, perché il tuo schiavo e la tua schiava si riposino come te» (Dt 5,14). E dunque tutti devono riposare, a partire da te, dai tuoi figli giù giù fino all'asino, al bue. Tu hai ricevuto libertà e tu oggi restitu­isci quella libertà dandola agli altri. È un gesto simbolo che attende di essere tradotto nella vita. Ricordando la tua liberazione, ricordi anche il tuo impe­gno di essere a tua volta appassionato della libertà degli altri. Ci impegniamo a far respirare gli altri, a dismettere il perverso costume di stare con il fiato sul collo degli altri. Come Dio ha fatto rivivere te, anche tu fa' respirare gli I altri. Vado d'istinto alle nostre case dove non così raramente le donne si ritrovano a tener dietro di domenica a tutto ciò che, lavorando, non fu loro possibile fare lungo la settimana, ma tu fa' riposare. D'istinto vado anche alla moltitudine degli stranieri che, nelle nostre case, costringiamo a lavo­rare sette giorni su sette per noi. Fa' riposare lo straniero, dice il Libro del Deuteronomio, da' libertà.
I segni diventano gratitudine
. Vorrei ancora aggiungere che la festa ci può regalare il tempo del ricor­dare. Succede che non si riesca più a cogliere i segni perché si corre in con­tinuazione. Sostando si vince questa voracità delle cose. Indugi sulla vita e allora un volto, una pietra, un fiore, diventano segno, li riconosci, diventa­no riconoscenza, diventano gratitudi­ne. Il correre ha l'effetto di generare una società che consuma e getta. Al contrario la memoria trattiene, acco­glie e fa intravvedere dietro le cose i volti, qualcuno da ringraziare. Gesù nel memoriale della sua cena ce lo ricorda; lui vede oltre, si ferma e ringra­zia: "Prese il pane, dopo aver reso grazie, lo spezzò". Che cosa hanno visto gli occhi di Gesù in quel pane? Qualcosa per cui rendere grazie! Anche noi la domenica a ringraziare per ciò che sta oltre, ritor­niamo come l'unico dei dieci lebbrosi. Rendere grazie, una costante nella vita di Gesù, quasi un rito, non solo all'ul­tima sua cena, ma anche per esempio al banchetto per i cinquemila sull'erba nel deserto, là dove, prima di spezzare il pane, ancora una volta rese grazie. Il suo non era un mangiare da ciechi. Importante la festa, importante perché la nostra vita, privata della memoria, non diventi un mangiare da ciechi, da "non vedenti" il dono che abita le cose. La preghiera prima dei pasti nelle case: rito dei "vedenti".
La festa induce a ricordare, a ricono­scere il dono che abita le cose, prezioso antidoto a contrastare e a vincere la civiltà, meglio diremmo "inciviltà", dei consumi, per la quale conta il prodotto che si consuma, mentre invece il dono ha qualcosa di inconsumabile. Tu un dono non lo butti via, perché dentro un dono c'è il volto di una persona che tu ami. Ma per cogliere il dono i tuoi occhi devono essere sanati dalla cecità. Bisognerebbe tornare ad incantarsi per le cose e questo potrebbe essere un dono della domenica, un tempo che ti è dato per riconoscere tante cose della tua vita che durante la settimana ti capita di non leggere in profondità, perché stai correndo e sfuggono. L'incantamento viene da un indugio, dalla capacità di sostare, di indugiare sulla soglia delle cose; la fretta è nemica, radicalmente nemica, di tutto questo. La fretta, che ci consuma, è strettamente parente della voracità del predatore. L'incantamento ha bisogno della lentezza, altra parola dimenticata.
Vedere il dono delle cose
A volte mi soffermo ad osservare il nostro mondo, di cui sono segno inquietante i nostri ragazzi: hanno tan­tissime cose eppure non se ne accor­gono, li vedi sempre ingrugniti. Poi ti capita di andare, che so io, in un paese del terzo mondo e trovi i ragazzini, che hanno una sciocchezza, un nulla in mano per giocare, e hanno il volto splendente. La festa nasce dal vedere, il dono nelle cose. Ai tempi di Gesù tutti vedevano gli uccelli, ma lui si incantava perché vedeva il Padre che li nutriva. Tutti vedevano i gigli, ma lui si incantava perché vedeva la mano del Padre che li vestiva in un modo così luminoso, che Salomone se lo sogna un vestito come quello.
Il dono custodisce un volto. Il volto dell'altro. A ben vedere il vero dono non è la cosa ma l'altro. Dunque festa come giorno in cui gioire degli altri. Nasce festa dal tempo dedicato alle  persone: c'è festa quando finalmente I possiamo indugiare con quelle persone per le quali non abbiamo mai tempo. Il vero dono sono le persone, vero dono la relazione. Non sempre ci chiediamo da dove venga il sorriso che dilaga negli occhi, quando apriamo un dono. Non viene forse dalla sorpresa e dalla gioia di essere stati pensati? In quel dono arde il volto di qualcuno I' che mi ha pensato. Non essere pensati è come morire, o vivere da morti:
"nessuno che ci pensi"! Le persone si sentono rinascere quando sentono che qualcuno le pensa. È festa quando ci sentiamo pensati, da Dio, dagli altri. Quando possiamo finalmente fermar­ci. A guardarci negli occhi, a raccon­tarci, ne è un simbolo la tavola di casa.
Nel vangelo si racconta di una festa organizzata a Betania per Lazzaro che era stato risuscitato. Marta è occupata come al solito a servire. I discepoli occupati a discutere di organizzazione della carità. La festa ferita, tradita. Maria di Betania l'unica ad accorger­si del suo amico, il Signore che va a morire. Solo lei ha occhi e ascolto, solo lei s'accorge del suo volto turbato solo lei a toccarlo, a profumarlo, l'unica a farlo. La sgridano perché lo fa: lo unge, lo profuma. Gli altri scandalizzati per quel profumo che le era costato un patrimonio. Festa è quando accade 1'eccesso dell' amore, il gesto smisu­rato. Non la routine, ma il brivido di qualcosa di diverso. Oggi tutto si è fat­to uguale e quasi viene da rimpiangere la stagione in cui rimaneva qualcosa nell' aria del giorno di festa, qualcosa di nuovo, da vedere, da ascoltare, da vestire, da gustare, da odorare: che fosse il "vestito della festa" un po' più luminoso o il pranzo un po' più ricco?
Sono andato per sussulti e sugge­stioni che attendono l'immaginazio­ne di ognuno per trovare incarnazio­ne nell' oggi che viviamo nella nostra Chiesa e nelle nostre famiglie.  


   

sabato 24 marzo 2012

CHI NON TOLLERA IL CROCIFISSO


LONDRA, 23. "Sorpresa e preoccupazione" sono state espresse in una nota dalla Chiesa ortodossa russa in merito a un caso di discriminazione che ha coinvolto una fedele della comunità in Gran Bretagna. Una parrocchiana della cattedrale dell'Assunzione a Londra, ha riferito l'arciprete della chiesa, Mikhail Dudko - il cui racconto è pubblicato dall'agenzia Interfax-religion - si è infatti dimessa dopo essersi rifiutata di osservare il divieto di indossare una croce durante l'orario di lavoro.
L'arciprete ha aggiunto che la posizione delle autorità governative britanniche che si oppone alla piena libertà di indossare le croci, è accolta a livello locale come "un vero e proprio divieto" e le persone con scarsa conoscenza della lingua e dei vari aspetti sociali della nazione "hanno virtualmente nessuna possibilità di difendere i propri diritti".
Nel Regno Unito sono diversi i casi di lavoratori cristiani che denunciano discriminazione di vario tipo. Si tratta di divieti posti da alcuni datori di lavoro ai propri dipendenti di indossare simboli religiosi, e fra questi il crocifisso. In particolare, due casi che riguardano una hostess e un'infermiera, Nadia Eweida e Shirley Chaplin, sono oggetto di ricorsi presso la Corte europea dei diritti dell'uomo, ma secondo alcune anticipazioni già pubblicate dai media, lo stesso Governo avrebbe espresso l'intenzione di difendere i datori di lavoro, legittimando così le loro disposizioni che vietano ai propri dipendenti di mostrare apertamente la loro appartenenza alla comunità cristiana mentre svolgono le loro mansioni.
La Chiesa ortodossa russa "ha espresso la propria sorpresa per la discriminazione dimostrata dalle autorità statali britanniche, che da un lato vietano di portare la croce battesimale al collo nei luoghi di lavoro, dall'altro mostrano grande tolleranza nei confronti di altri simboli religiosi e non religiosi".
Nella nota, a firma del presidente del Dipartimento sinodale per l'informazione del Patriarcato di Mosca, Vladimir Legoida, è anche aggiunto che "questa da parte delle autorità della Gran Bretagna è motivo di preoccupazione soprattutto in considerazione dell'esistenza, nelle società europee moderne, di tendenze contrarie volte alla liberalizzazione di ogni istinto umano".
Nella nota si sottolinea che le autorità paiono usare "due pesi e due misure" nei loro rapporti con le comunità religiose: per esempio, i sikh, compresi quelli di loro che lavorano nella polizia londinese, sono ufficialmente autorizzati a portare il turbante, uno dei simboli della loro appartenenza religiosa. "Perché invece - si chiede Legoida - gli antichi simboli dei cristiani dovrebbero essere pericolosi, chi possono offendere?".
Nel concludere, il presidente del Dipartimento sinodale per l'informazione osserva: "Se in una società civile la dimostrazione aperta, non aggressiva della propria appartenenza religiosa non è possibile, allora dobbiamo porci delle domande sulla natura di questa società. Ciò significa che tutte le chiacchiere sulla tolleranza e gli appelli a essa non sono che lettera morta, se non è possibile vivere e mantenere rapporti di buon vicinato senza perdere la propria identità".


(©L'Osservatore Romano 24 marzo 2012)



lunedì 19 marzo 2012

IL RUOLO DEL PADRE

Scritto da Paolo PUGNI  

La paternità è un attributo divino che ogni padre deve cercare di riprodurre agendo in modo più possibile simile a quello di Dio Padre.
Ma oggi è in corso la demolizione di questo ruolo.

Un errore semplice da commettere, nell'esaminare le cose di quaggiù, è quello di prenderle a misura delle cose del cielo. È la nostra natura umana che ci induce in questa semplificazione: è immediato ricorrere a ciò che conosciamo per immaginare ciò che «nessun occhio vide". Così quando pensiamo a Dio Padre ce lo raffiguriamo come un buon padre di famiglia e cerchiamo di attribuirgli tutte le qualità, ancorché elevate all'ennesima potenza, che riscontriamo in persone di eccezionali valori. La verità è che l'ottica deve essere completamente ribaltata: Dio non è come un buon padre di famiglia, ma il genitore, per essere buono, deve prendere esempio da Dio Padre. San Paolo lo chiarisce con inconfutabile semplicità: «io piego le ginocchia davanti al Padre dal quale ogni paternità nei cieli e sulla terra prende nome" (Ef, 3,14-15).
La paternità è dunque attributo divino che ogni padre deve cercare di riprodurre agendo in modo più possibile simile a quello di Dio Padre. È da Lui che dobbiamo imparare il senso e la finalità del nostro essere padri quaggiù e apprendere anche come agire per il bene dei nostri figli.
La figura del padre oggi è oggetto di molte discussioni e di indubbi attacchi: non è questa la sede per parlare dei tentativi in atto per distruggere la famiglia e in particolare la paternità, ma ciò che ci interessa analizzare è come si stia cercando di demolire l'aspetto autorevole della figura paterna, come icona terrena della paternità di Dio. La deriva è, come spesso capita quando il diavolo ci mette la coda, apparentemente dolce e segno di progresso: che cosa c'è di più tenero di un padre che si prende cura dei propri pargoli cambiando pannolini, nutrendoli, assecondando
le loro passioni? Chi non si commuove davanti ad un padre, magari avanti negli anni, che porta i propri figli ai giardinetti per giocare con loro?
Chiariamo subito per evitare fraintendimenti: non c'è nulla di male in tutto questo, purché questo non rappresenti il tutto delle azioni e del ruolo del padre.
Gli specialisti parlano di una mammizzazione del padre: il padre "mammo" si specchia nella madre e ne riproduce i compiti, diventando per certi versi del tutto identico a lei. Se è più che doveroso e benemerito il fatto che il padre di oggi si faccia carico di incombenze essenziali nella vita dei figli, e che sia in grado di offrire alla moglie un supporto non solo affettivo ma anche fattivo, è però necessario affermare che questo non esaurisce il ruolo paterno.
La Lettera agli Ebrei suggerisce una immagine differente del Padre quando, a proposito del Figlio, dice: «nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà; pur essendo Figlio, imparò tuttavia l'obbedienza dalle cose che patì» (Eb 5,7-8). La figura paterna, che qui si intravede sullo sfondo, appare più come quella di un austero e inflessibile giudice che insegna al figlio l'obbedienza attraverso la sofferenza. In effetti sembra persino un errore la prima parte di questa frase: come sarebbe a dire che Gesù fu esaudito quando pregava «allontana da me questo calice» se ha comunque dovuto affrontare la croce?
Il buon padre non dà al figlio ciò che il figlio vuole, ma ciò di cui ha bisogno: in questo lo esaudisce, nell'aiutarlo a crescere, mediante l'obbedienza e la sofferenza.
Lo psicoterapeuta Franco Poterzio riassume il ruolo del padre con una lapidaria frase: «la madre ti dice che tutto il mondo sei tu, il padre che tu non sei tutto il mondo». Rinforza il concetto un altro studioso molto noto, Claudio Risé, che nel suo bellissimo saggio Il padre: l'assente inaccettabile precisa che il compito primario del padre è quello di infliggere la ferita, di risvegliare l'animo egocentrico del figlio, cullato dall'amore materno, per mostrargli la durezza della vita e il cammino da seguire.
Tutto questo si potrebbe riassumere nella parola autorità, termine, questo, che solo ultimamente sta riacquistando una certa buona fama, dopo anni nei quali appariva come una spregevole qualifica. Il Sessantotto, volendo colpire, non senza qualche ragione, un certo autoritarismo manieristico e violento, ha finito, come spesso capita a chi non possiede che una parte della verità, per trascinare nel fango e nel disprezzo il giusto mezzo, l'autorità appunto, che si contrappone sia all'autoritarismo sia al permissivismo. Mi sembra che tutte le virtù che riguardano l'uomo siano l'esatta applicazione di quella che io chiamo la bilancia di san Paolo: sempre nella Lettera agli Efesini Paolo suggerisce che dobbiamo perseguire la santità veritatem facientes in carite ovvero «vivendo secondo verità nella carità». Ora spesso capita che si finisca per privilegiare uno dei due aspetti: il permissivismo in un certo senso esalta la carità negando la verità, mentre l'autoritarismo fa il contrario. La virtù è l'unica strada per tenere in equilibrio i due piatti di questa bilancia: fare il bene dei figli secondo verità.
Dio Padre è al contempo Colui che esige obbedienza e che, come nella parabola del figliol prodigo, corre incontro al figlio pentito e mostra una delicatezza ed una sensibilità profondissime. Così il padre terreno deve essere in grado di esigere obbedienza, di guidare i figli verso il loro bene senza cedere ad una eccessiva tenerezza, e al contempo mostrare una delicatezza che si manifesta nell'attenzione per loro, nella capacità di comprendere che cosa effettivamente serva loro e di saperlo proporre nel modo più adeguato.
Il padre deve guidare con autorevolezza, che è il vero volto della sincera autorità. Essere autorevoli come lo è il Padre: è mai possibile? È la strada che Gesù ci invita a percorrere: «Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,48). Più siamo santi, più siamo buoni padri per i nostri figli.
Solo proponendo un esempio che, per quanto imperfetto, rimanda a quello del Padre, saremo credibili quando proporremo ai nostri figli una strada che porta alla felicità e che è fatta soprattutto di doveri e di sacrifici: questo approccio, di riferirci cioè al Padre Celeste, è l'unico modo che ci permette di squadrare il nostro animo e capire veramente chi siamo, per poter prendere possesso di noi ed offrirci in un sacrifico di soave odore a Colui che ci darà il premio finale.

RICORDA
«"Se quello che i mortali desiderano potesse avverarsi, per prima cosa vorrei il ritorno del padre": è Telemaco, il figlio di Ulisse a parlare cosi, nell'Odissea. Egli è una delle prime figure che nelle grandi narrazioni dell'umanità testimonia dell'angoscia del figlio senza padre. Dopo di lui, ne vennero molti altri. Ed oggi sono legioni».
(Claudio Risé, Il Padre l'assente inaccettabile, San Paolo, 2003, p. 7).
BIBLIOGRAFIA
Claudio Risé, Il Padre l'assente inaccettabile, San Paolo, 2003.
Luigi Zoja, Il gesto di Ettore, Bollati Boringhieri, 2000.
Jaques Arènes, C’è ancora un padre in casa?, Edizioni Scientifiche Magi, 2000.
Gustavo Pietropolli Charmet, Un nuovo padre, Oscar Mondatori, 1995.
Simona Argentieri, Il padre materno da san Giuseppe ai nuovi mammi, Meltemi, 1999.




IL TIMONE – N. 54 - ANNO VIII - Giugno 2006 - pag. 52 - 53
Ultimo aggiornamento Mercoledì 19 Agosto 2009 17:44

sabato 17 marzo 2012

San Francesco in Dante e Giotto secondo Massimo Cacciari

Durante la manifestazione Libri come, tenuta all'Auditorium, l'ex sindaco di Venezia ha presentato il suo ultimo libro che descrive la figura di San Francesco in Dante e in Giotto. Nonostante avessero conosciuto la sua storia dalle stesse fonti, le loro visioni del Santo e della sua povertà sono differenti. A parte un tratto che non concerne l'umana natura

Giovedì 8 marzo il filosofo italiano Massimo Cacciari ha parlato del suo nuovo libro uscito nei giorni scorsi Doppio ritratto. San Francesco in Dante e Giotto edito dalla Biblioteca minima Adelphi. Si tratta di un confronto tra due grandi artefici del linguaggio artistico e letterario moderno intorno al Santo nuovo per eccellenza. Attraverso la historia della sua vita e il ritorno alla povertà, San Francesco rappresenta il segno di una necessaria riforma della Chiesa e dei suoi costumi, rappresenta il Christus Redivivus che indica una nuova via da seguire per un radicale rinnovamento sociale, politico e civile. Questa nuova figura di Santo ha sconvolto la spiritualità europea, come testimoniano le sue rappresentazioni pittoriche dell’epoca, che devono rompere con la tradizione iconica bizantina e lo raffigurano non più come immagine immobile e quiescente, ma attraverso il movimento delle storie della sua vita, con le sue predicazioni e pellegrinaggi per diffondere il verbo del Signore. Secondo le agiografie dell’epoca, Dio lo avrebbe consacrato dipingendogli le stimmate sul corpo – prima figura umana a ricevere questo dono – per far riconoscere a tutti che la sua missione di conversione era compiuta da un alter Christus sceso sulla Terra. L’ex sindaco di Venezia prende in considerazione Giotto e Dante per tracciare questo confronto perché sono due dictatores che hanno mediato al popolo contenuti dell’alta cultura e  tradizioni filosofiche con il linguaggio volgare e che quindi hanno sentito il bisogno di ritornare alla loro terra per comunicare a tutti il pane del sapere e il loro piano di riforma sociale e politica. Nonostante abbiano attinto alle medesime fonti per delineare una propria figura del Santo, raggiungono risultati differenti nella sua rappresentazione.
Giotto Storie di San Francesco Saluto di Santa Chiara e delle sue compagne a San Francesco
Giotto Storie di San Francesco Saluto di Santa Chiara e delle sue compagne a San Francesco.
Le fonti su cui si basa il filosofo sono il ciclo di affreschi della Basilica superiore di Assisi e quelli della Cappella Bardi nella Basilica di Santa Croce a Firenze, entrambi di Giotto e raffiguranti la vita e le storie di San Francesco, e i canti centrali del Paradiso (canti XXIXIIXIII ) di Dante. Proprio dal poeta fiorentino, Cacciari inizia l’esposizione dei suoi studi. Nei canti della Divina Commedia presi in considerazione non è presente la figura di San Francesco, ma è qui che viene elogiato ed esaltato. I brani trattati si svolgono nel cielo del Sole, dove risiedono gli spiriti sapienti che rinnovano e salvano la Chiesa. Questi grandi sapienti si avvicinano a Dante e Beatrice danzando in cerchio formando una corona, sono insigni rappresentanti del pensiero giuridico, filosofico e teologico che raffigurano l’ordine Domenicano. Più avanti una successiva corona di sapienti si avvicinerà a Dante, saranno i rappresentanti dell’ordine Francescano, alla cui testa sta San Bonaventura da Bagnoregio autore della legenda maior, la biografia di San Francesco e i miracoli post mortem, rielaborata dalle precedenti Vitae del Santo scritte da Tommaso da Celano. Le dissertazioni di questi sapienti hanno il carattere d’encomio dei due nuovi ordini religiosi e del sapere che rappresentano. Il primo a parlare dei sapienti della prima corona è il domenicano San Tommaso D’Aquino che celebra la figura di Francesco, mentre per la seconda corona a intervenire è Bonaventura che decanta le doti di Domenico. La disposizione dei loro discorsi non è casuale, ma anzi è ordinata secondo l’importanza attribuita da Dante ai Santi: la mente del poeta fiorentino è tutta per Francesco, che cerca riforme nella Chiesa. Domenico è invece lo splendore intellettuale, la nuova dottrina della Chiesa cattolica che deve studiare e predicare e non convertire forzatamente le genti per mezzo di Guerre Sante. L’elemento della sapienza che deve entrare nella dottrina cattolica appare più evidente con le figure che prendon parola per ultime e concludono le due corone: Sigieri da Brabante, presentato da Tommaso, è un averroista detestato dai Francescani che distingue le verità di ragione e le verità di fede, e Gioacchino da Fiore, presentato da Bonaventura, è giudicato malamente da Tommaso perché reinterpreta in maniera originale le Sacre Scritture ed è il primo a rompere un tabù agostiniano e quindi a propinare una non credenza dogmatica del Vangelo.
Giotto Storie di San Francesco Morte di San Francesco
Giotto Storie di San Francesco Morte di San Francesco
Alle luce di queste due figure il valore escatologico della dottrina di Francesco assume un significato ben ampio e la sua magnificenza viene riconosciuta da Dante soprattutto nell’aver donato un nuovo significato alla charitas cristiana: Francesco infatti predica evangelicamente il non giudicare, il non opporsi al male, porgere l’altra guancia: sarebbero questi i comportamenti da seguire per rinnovare la Chiesa. Durante il XIII sec. proprio il giudizio severo sulle Sacre Scritture e sugli eretici e gli infedeli erano state le cause di numerose guerre e dissidi in Europa. Al contrario Francesco ci insegna che non dobbiamo seguire con rigida severità le regole del Cristo, ma che le Sue tracce si devono seguire liberamente. L’altro elemento importante della sua dottrina è la povertà con cui bisogna condurre l’esistenza e che porterà Francesco a morire nudo sulla nuda terra.
Proprio questa ricerca della povertà da parte del Santo stride con la costruzione della Basilica Pontificia di Assisi, fondata col denaro che lo stesso Francesco voleva fosse trattato come sterco. Nell’arredamento e negli affreschi, ogni corrente pauperistica viene liquidata dalla Chiesa che ricerca solo la regalità. Nelle immagini di nudità descritte da Bonaventura nella sua legenda maior, il poverello di Assisi appare vestito con abiti sontuosi: queste rappresentazioni maestose sono in contrasto con la vita e l’esempio di Francesco. Addirittura anche la morte del Santo in un’atmosfera surreale, nudo sulla nuda terra con intorno i suoi frati che cantano, è stata completamente stravolta da Giotto e dai suoi committenti che hanno preferito raffigurare il Santo circondato da frati che lo accudiscono. Secondo Cacciari si consuma un vero e proprio tradimento dell’immagine francescana nei cicli di Assisi. Quella del ciclo degli affreschi di Assisi sarebbe una rappresentazione omogenea alle esigenze della Chiesa del periodo: Francesco è in perfetta armonia con la Chiesa e si inchina ad essa. In Dante, l’esatto opposto.
Giotto Storie di San Francesco L'omaggio del semplice
Giotto Storie di San Francesco L'omaggio del semplice
Secondo la teologia cristiana la povertà sarebbe il necessario svuotamento, kenosis, che serve ad accogliere il verbo del Signore dell’amore del prossimo. Sarebbe una nudità intesa non in senso fisico, ma una nudità più intima, uno spogliarsi dei pensieri rivolti a sé e una rinuncia all’occuparsi di sé, della philopsichia e della philoautia, per rispettare il mandatum novum: solo se non si ha più amore di sé si è totalmente liberi di amare l’altro. San Francesco ci ha insegnato però che questa rinuncia non deve essere accolta come un sacrificio ma bisogna accettarla con volto lieto, hilaris, e che quindi proprio nella sofferenza bisogna essere felici.
Né Dante, né Giotto riescono tuttavia a rappresentare la letizia che abbraccia la morte e solo questa sarebbe l’unica analogia tra le loro due rappresentazioni. Questo perché Francesco è una riserva escatologica rispetto a qualsiasi immagine, e anche perché della morte accolta con letizia non è possibile nessuna rappresentazione umana: questa è una prerogativa del Cristo, è la Christus patiens che ha redento l’umanità. Davanti a una simile natura ogni fantasia umana viene meno. Forse è proprio per questo che ancora molte persone rimangono affascinate dalla figura di Francesco ed è ancora dopo secoli fonte d’ispirazione per chi vuole pensare a cambiare il mondo passando per il cambiamento di sé.

giovedì 15 marzo 2012

Non esser triste...

Non essere triste 
 per il dono che non hai ricevuto,
i fiori che non ti ho regalato
non appassiranno mai.


martedì 13 marzo 2012

Se ai mortali fosse possibile
scegliere tutto da sè,
sceglierebbero il giorno
del ritorno del padre.

( Omero - Odissea XVI, 148-149 )



sabato 10 marzo 2012

Ho fatto un frontale con la realtà, le ho chiesto i danni; mi ha 
risposto che non paga chi sta alla guida di un sogno.

— Paola Melone 

venerdì 9 marzo 2012

A TE CHE PASSI ...







IL SIGNORE DELLA VITA


Un giorno una famiglia fu colpita da un gravissimo lutto. La bambina di pochi mesi si ammalò di un  tumore che la portò alla morte. Il fratellino di qualche anno di vita, dopo qualche giorno dal funerale, chiese a sua madre: “mamma, ma quando torna a casa Lucia?”.

Una donna vegliava il marito morto improvvisamente , con cui aveva trascorso più di quarant’anni insieme : urlava disperata :” Mi avevi promesso che non mi avresti mai lasciato…dove sei ora ? “

La risposta a questa domanda, una delle più radicali che l’uomo possa compiere , noi non potremmo mai darla se Cristo non fosse risorto , se questo non fosse mai successo, e se a questo avvenimento non credessimo dal più profondo del cuore, in altre parole se non credessimo alla Pasqua che stiamo per celebrare.
Effettivamente per cogliere le potenzialità contenute in questa definizione della Pasqua, occorre aver preso atto una volta, lucidamente, della transitorietà della vita. Un filosofo antico, Eraclito, ha espresso questa fondamentale esperienza con una frase rimasta celebre: “ panta rei “, cioè: tutto scorre. Succede nella vita come sullo schermo televisivo: i programmi si susseguono rapidamente e ognuno cancella il precedente. Lo schermo resta lo stesso, ma le immagini che vi passano sopra cambiano. Così è di noi: il mondo rimane, ma noi ce ne andiamo una generazione dopo l’altra. Di tutti i nomi, i volti, le notizie che riempiono i giornali e i telegiornali di oggi , - di me, di te, di tutti noi- cosa resterà da qui a qualche anno o decennio? Nulla di nulla. L’uomo non è che “un disegno creato dall’onda sulla spiaggia del mare che l’onda successiva cancella”.

Nel tentativo di non passare e di non morire del tutto, ci aggrappiamo chi alla giovinezza, chi all’amore, chi alla prole e chi alla fama. “Non morirò del tutto, esclamava il poeta Orazio, ho eretto (con le mie poesie) un monumento più duraturo del bronzo”. Sì, ma a che serve ormai a lui questo “monumento”? Serve a noi, ma non a lui. “L’uomo non è che un soffio, i suoi giorni come ombra che passa”, ripete la Bibbia e credo che almeno su questo punto tutti siamo pronti a darle ragione.

Al momento stesso della nascita inizia per ognuno un conteggio alla rovescia che non si arresta un solo istante, né di giorno né di notte. In taluni conventi c’erano  una volta dei grandi orologi a pendolo su cui era scritto, come per ammonizione: “ Vulnerant omnes, ultima necat, “Tutte (s’intende, le ore) feriscono, l’ultima uccide”.

Di fronte a questa esperienza che tutto passa, si possono prendere diversi atteggiamenti. Uno, molto antico e ricordato nella stessa Bibbia, è quello di chi dice: “Mangiamo e beviamo, tanto domani moriremo” (Is 22,13). Parlando dei giorni che precedettero il diluvio, Gesù dice: “Mangiavano e bevevano, prendevano moglie e marito... e non si accorsero di nulla, finché venne il diluvio e li inghiottì tutti” (cf. Mt 24,38).

L’altro è quello di credere alla resurrezione di Cristo: “Il mondo passa, ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno” (1 Gv 2, 17). C’è dunque qualcuno che non passa, Dio, e c’è un modo per non passare del tutto neanche noi: fare la volontà di Dio, cioè credere, aderire a Dio.

Qualcuno si domanda: ma che faremo “in cielo” con Cristo per tutta l’eternità, visto che è lì che siamo destinati ad andare? Non ci annoieremo? Si potrebbe rispondere :  ci si annoia forse a stare bene e in ottima salute? Chiedete a degli innamorati se si annoiano a stare insieme. Quando ci capita di vivere un momento di intensissima e pura gioia non nasce forse in noi il desiderio che ciò duri per sempre, che non finisca mai? Quaggiù questi stati non durano per sempre, perché non c’è un oggetto che possa appagare indefinitamente. Con Dio è diverso. La nostra mente troverà in lui la Verità e la Bellezza che non finirà mai di contemplare e il nostro cuore il Bene di cui non si stancherà mai di godere.



Nel libro della Genesi si legge che dopo il peccato Dio disse all'uomo: "Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere ritornerai" (Gen 3, 19). Ogni anno, nel mercoledì della ceneri, la liturgia ci ripete questo severo ammonimento: "Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai". O anche  l'altra: "Convertitevi e credete al vangelo".


Facciamo un salto di migliaia di anni e arriviamo a Gesù: "Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molti posti. Se no, ve l'avrei detto. Io vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io". Esse contengono la risposta cristiana alla più inquietante delle domande umane. Morire non è - come era agli inizi della Bibbia e presso il mondo pagano - uno scendere nello Sheol o nell'Ade per condurvi una vita da larve o di ombre; non è - come per certi biologi atei - un restituire alla natura il proprio materiale organico per un ulteriore uso da parte di altri viventi; non è neppure - come in certe forme di religiosità attuali che si ispirano a dottrine orientali (spesso mal comprese) - un dissolversi come persona nel gran mare della coscienza universale, nel Tutto o, a seconda dei casi, nel Nulla...È invece un andare a stare con Cristo nel seno del Padre, un essere dove lui è.

Il velo del mistero non è tolto perché non può essere tolto. Come non si può descrivere cos'è il colore a un cieco dalla nascita o il suono a un sordo, così non si può spiegare cos'è una vita fuori del tempo e dello spazio a chi è ancora nel tempo e nello spazio. Non è Dio che ha voluto tenerci all'oscuro...Ci è detto però l'essenziale: la vita eterna sarà una comunione piena, anima e corpo, con Cristo risorto, un condividere la sua gloria e la sua gioia.

Papa Benedetto XVI, nella sua recente enciclica sulla Speranza (Spe salvi) riflette sulla natura della vita eterna da un punto di vista anche esistenziale. Comincia con il prendere atto che ci sono persone che non desiderano affatto una vita eterna, ne hanno anzi paura. A che scopo, si chiedono, prolungare una esistenza che si è rivelata piena di problemi e di sofferenze?

La ragione di questa paura, spiega il Papa, è che non si riesce a pensare alla vita se non nei modi che conosciamo quaggiù; mentre si tratta sì di vita, ma senza tutte quelle limitazioni che sperimentiamo al presente. "La vita eterna, dice l'enciclica, sarà un immergerci nell'oceano dell'infinito amore nel quale il tempo - il prima e il dopo - non esiste più. Non sarà un continuo susseguirsi di giorni del calendario, ma il momento colmo di appagamento, in cui la totalità ci abbraccia e noi abbracciamo la totalità".

Con queste parole il Papa allude forse, tacitamente, all'opera di un suo famoso conterraneo. L'ideale del Faust di Goethe è infatti proprio quello di raggiungere una tale pienezza di vita e un tale appagamento da fargli esclamare: "Férmati, istante: sei troppo bello!". Certo questa è l'idea meno inadeguata che possiamo farci della vita eterna: un istante che vorremmo non finisse mai e che -a differenza di tutti gli istanti di felicità di quaggiù - non finirà mai!
Un giorno, quando saliremo alla Nuova Gerusalemme dove si celebra la Pasqua eterna, sono sicuro che potremo davvero esclamare davanti a cieli nuovi e terra nuova quello che i giovani innamorati scrivono sui muri o simbolizzano nel chiudere un lucchetto e nel buttare la chiave :” For ever,, for ever , per sempre, in una gioia eterna! “.

“ ….perché l'Agnello che sta in mezzo al trono
sarà il loro pastore
e li guiderà alle fonti delle acque della vita.
E Dio tergerà ogni lacrima
dai loro occhi».
…………non ci sarà più la morte,
né lutto, né lamento, né affanno,
perché le cose di prima sono passate».
( Apocalisse 7,17.21,4 )