domenica 25 marzo 2012

Vincendo l'idolatria delle mani….

di Angelo Casati sacerdote della Chiesa di Milano.

La Bibbia lega alla festa l'imma­gine del riposo. I rabbini com­mentando l'opera di Dio nei sei giorni della creazione affermano che l'opera era incompiuta: mancava il sabato. Il sabato portò quel riposo di cui il mon­do, creato da Dio, sentiva la mancanza. Nel racconto della Genesi Dio benedi­ce il settimo giorno, la festa, e quando Dio benedice accade la fecondità. Mi chiedo se, cancellando la distinzione della festa perché tutti i giorni alla fin fine sono uguali, non si interrompa malauguratamente la fecondità dell'esi­stenza. La fecondità della festa sta nel generare il tempo della pace, dello shalom, della vita nella sua pienezza. Possiamo allora capire perché Gesù, curando gli infermi di sabato, onorasse il sabato nella sua anima segreta più profonda, quella di creare armonia.
Oggi assistiamo a un attentato deva­stante alla creazione, forse ne siamo diventati tutti più coscienti, ma non ci sfiora con altrettanta consapevolezza il pensiero che un attentato lo stia suben­do anche l'ultima delle cose che Dio ha creato e benedetto, la festa come pienezza dei giorni. Riprendendo le parole del Qoelet potremmo forse dire : C'è un tempo per lavorare e un tempo per riposare". Tra le realtà da restituire alla limpidezza delle origini c'è anche la festa. Custodire nella vita il tempo del vero riposo, rompendo il ritmo vorticoso delle nostre giornate è come riconoscere nei fatti che, non noi, ma Dio è insostituibile e che non tutto sta nelle nostre mani. Noi ci fermiamo e il mondo continua ad esistere, perché è lui, Dio, a portare a compimento l'opera delle nostre mani. La festa ci consente di sfuggire all'idolatria delle nostre mani, custodire il tempo del riposo ci consente di non impoverire l'orizzonte della vita su quello del­la "produzione". Rincorrendola quasi fosse un assoluto, dimenticando che noi siamo molto di più di ciò che produciamo. Con il riposo onoriamo noi stessi e gli altri, strappando noi stessi e gli altri all'immagine, profon­damente triste, di uomini e donne che se ne vanno piegati e ingrigiti, quasi fossero votati a un lavoro da schiavi.
Difendendo il tempo del riposo per noi e per gli altri diamo riconoscimen­to alla dignità nostra e di ogni essere umano. Tu non lavori come uno schia­vo. Tu sei un essere libero.
Raramente ci è stato ricordato che tra i decreti del Concilio di Nicea (325 d.c.), il canone 20 faceva divie­to di inginocchiarsi nelle celebrazioni domenicali. La motivazione era que­sta: tu sei un uomo libero e stai in piedi davanti a Dio con la tua libertà. Quasi a dire che l'Eucaristia è fonte di donne e uomini "alzati" e non "abbassati", fonte di vite libere, è un pane che ci dà la forza di sfuggire al rimpianto di una terra di schiavitù. Quando Mosè invita ad osservare le dieci parole, a proposito del non lavorare di sabato, il testo sorprendentemente specifica: «né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bue, né il tuo asino, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te, perché il tuo schiavo e la tua schiava si riposino come te» (Dt 5,14). E dunque tutti devono riposare, a partire da te, dai tuoi figli giù giù fino all'asino, al bue. Tu hai ricevuto libertà e tu oggi restitu­isci quella libertà dandola agli altri. È un gesto simbolo che attende di essere tradotto nella vita. Ricordando la tua liberazione, ricordi anche il tuo impe­gno di essere a tua volta appassionato della libertà degli altri. Ci impegniamo a far respirare gli altri, a dismettere il perverso costume di stare con il fiato sul collo degli altri. Come Dio ha fatto rivivere te, anche tu fa' respirare gli I altri. Vado d'istinto alle nostre case dove non così raramente le donne si ritrovano a tener dietro di domenica a tutto ciò che, lavorando, non fu loro possibile fare lungo la settimana, ma tu fa' riposare. D'istinto vado anche alla moltitudine degli stranieri che, nelle nostre case, costringiamo a lavo­rare sette giorni su sette per noi. Fa' riposare lo straniero, dice il Libro del Deuteronomio, da' libertà.
I segni diventano gratitudine
. Vorrei ancora aggiungere che la festa ci può regalare il tempo del ricor­dare. Succede che non si riesca più a cogliere i segni perché si corre in con­tinuazione. Sostando si vince questa voracità delle cose. Indugi sulla vita e allora un volto, una pietra, un fiore, diventano segno, li riconosci, diventa­no riconoscenza, diventano gratitudi­ne. Il correre ha l'effetto di generare una società che consuma e getta. Al contrario la memoria trattiene, acco­glie e fa intravvedere dietro le cose i volti, qualcuno da ringraziare. Gesù nel memoriale della sua cena ce lo ricorda; lui vede oltre, si ferma e ringra­zia: "Prese il pane, dopo aver reso grazie, lo spezzò". Che cosa hanno visto gli occhi di Gesù in quel pane? Qualcosa per cui rendere grazie! Anche noi la domenica a ringraziare per ciò che sta oltre, ritor­niamo come l'unico dei dieci lebbrosi. Rendere grazie, una costante nella vita di Gesù, quasi un rito, non solo all'ul­tima sua cena, ma anche per esempio al banchetto per i cinquemila sull'erba nel deserto, là dove, prima di spezzare il pane, ancora una volta rese grazie. Il suo non era un mangiare da ciechi. Importante la festa, importante perché la nostra vita, privata della memoria, non diventi un mangiare da ciechi, da "non vedenti" il dono che abita le cose. La preghiera prima dei pasti nelle case: rito dei "vedenti".
La festa induce a ricordare, a ricono­scere il dono che abita le cose, prezioso antidoto a contrastare e a vincere la civiltà, meglio diremmo "inciviltà", dei consumi, per la quale conta il prodotto che si consuma, mentre invece il dono ha qualcosa di inconsumabile. Tu un dono non lo butti via, perché dentro un dono c'è il volto di una persona che tu ami. Ma per cogliere il dono i tuoi occhi devono essere sanati dalla cecità. Bisognerebbe tornare ad incantarsi per le cose e questo potrebbe essere un dono della domenica, un tempo che ti è dato per riconoscere tante cose della tua vita che durante la settimana ti capita di non leggere in profondità, perché stai correndo e sfuggono. L'incantamento viene da un indugio, dalla capacità di sostare, di indugiare sulla soglia delle cose; la fretta è nemica, radicalmente nemica, di tutto questo. La fretta, che ci consuma, è strettamente parente della voracità del predatore. L'incantamento ha bisogno della lentezza, altra parola dimenticata.
Vedere il dono delle cose
A volte mi soffermo ad osservare il nostro mondo, di cui sono segno inquietante i nostri ragazzi: hanno tan­tissime cose eppure non se ne accor­gono, li vedi sempre ingrugniti. Poi ti capita di andare, che so io, in un paese del terzo mondo e trovi i ragazzini, che hanno una sciocchezza, un nulla in mano per giocare, e hanno il volto splendente. La festa nasce dal vedere, il dono nelle cose. Ai tempi di Gesù tutti vedevano gli uccelli, ma lui si incantava perché vedeva il Padre che li nutriva. Tutti vedevano i gigli, ma lui si incantava perché vedeva la mano del Padre che li vestiva in un modo così luminoso, che Salomone se lo sogna un vestito come quello.
Il dono custodisce un volto. Il volto dell'altro. A ben vedere il vero dono non è la cosa ma l'altro. Dunque festa come giorno in cui gioire degli altri. Nasce festa dal tempo dedicato alle  persone: c'è festa quando finalmente I possiamo indugiare con quelle persone per le quali non abbiamo mai tempo. Il vero dono sono le persone, vero dono la relazione. Non sempre ci chiediamo da dove venga il sorriso che dilaga negli occhi, quando apriamo un dono. Non viene forse dalla sorpresa e dalla gioia di essere stati pensati? In quel dono arde il volto di qualcuno I' che mi ha pensato. Non essere pensati è come morire, o vivere da morti:
"nessuno che ci pensi"! Le persone si sentono rinascere quando sentono che qualcuno le pensa. È festa quando ci sentiamo pensati, da Dio, dagli altri. Quando possiamo finalmente fermar­ci. A guardarci negli occhi, a raccon­tarci, ne è un simbolo la tavola di casa.
Nel vangelo si racconta di una festa organizzata a Betania per Lazzaro che era stato risuscitato. Marta è occupata come al solito a servire. I discepoli occupati a discutere di organizzazione della carità. La festa ferita, tradita. Maria di Betania l'unica ad accorger­si del suo amico, il Signore che va a morire. Solo lei ha occhi e ascolto, solo lei s'accorge del suo volto turbato solo lei a toccarlo, a profumarlo, l'unica a farlo. La sgridano perché lo fa: lo unge, lo profuma. Gli altri scandalizzati per quel profumo che le era costato un patrimonio. Festa è quando accade 1'eccesso dell' amore, il gesto smisu­rato. Non la routine, ma il brivido di qualcosa di diverso. Oggi tutto si è fat­to uguale e quasi viene da rimpiangere la stagione in cui rimaneva qualcosa nell' aria del giorno di festa, qualcosa di nuovo, da vedere, da ascoltare, da vestire, da gustare, da odorare: che fosse il "vestito della festa" un po' più luminoso o il pranzo un po' più ricco?
Sono andato per sussulti e sugge­stioni che attendono l'immaginazio­ne di ognuno per trovare incarnazio­ne nell' oggi che viviamo nella nostra Chiesa e nelle nostre famiglie.  


   

Nessun commento:

Posta un commento