di Michele Lupo
Durante la manifestazione Libri come, tenuta all'Auditorium, l'ex sindaco di Venezia ha presentato il suo ultimo libro che descrive la figura di San Francesco in Dante e in Giotto. Nonostante avessero conosciuto la sua storia dalle stesse fonti, le loro visioni del Santo e della sua povertà sono differenti. A parte un tratto che non concerne l'umana natura
Giovedì 8 marzo il filosofo italiano Massimo Cacciari ha parlato del suo nuovo libro uscito nei giorni scorsi Doppio ritratto. San Francesco in Dante e Giotto edito dalla Biblioteca minima Adelphi. Si tratta di un confronto tra due grandi artefici del linguaggio artistico e letterario moderno intorno al Santo nuovo per eccellenza. Attraverso la historia della sua vita e il ritorno alla povertà, San Francesco rappresenta il segno di una necessaria riforma della Chiesa e dei suoi costumi, rappresenta il Christus Redivivus che indica una nuova via da seguire per un radicale rinnovamento sociale, politico e civile. Questa nuova figura di Santo ha sconvolto la spiritualità europea, come testimoniano le sue rappresentazioni pittoriche dell’epoca, che devono rompere con la tradizione iconica bizantina e lo raffigurano non più come immagine immobile e quiescente, ma attraverso il movimento delle storie della sua vita, con le sue predicazioni e pellegrinaggi per diffondere il verbo del Signore. Secondo le agiografie dell’epoca, Dio lo avrebbe consacrato dipingendogli le stimmate sul corpo – prima figura umana a ricevere questo dono – per far riconoscere a tutti che la sua missione di conversione era compiuta da un alter Christus sceso sulla Terra. L’ex sindaco di Venezia prende in considerazione Giotto e Dante per tracciare questo confronto perché sono due dictatores che hanno mediato al popolo contenuti dell’alta cultura e tradizioni filosofiche con il linguaggio volgare e che quindi hanno sentito il bisogno di ritornare alla loro terra per comunicare a tutti il pane del sapere e il loro piano di riforma sociale e politica. Nonostante abbiano attinto alle medesime fonti per delineare una propria figura del Santo, raggiungono risultati differenti nella sua rappresentazione.
Le fonti su cui si basa il filosofo sono il ciclo di affreschi della Basilica superiore di Assisi e quelli della Cappella Bardi nella Basilica di Santa Croce a Firenze, entrambi di Giotto e raffiguranti la vita e le storie di San Francesco, e i canti centrali del Paradiso (canti X – XI – XII – XIII ) di Dante. Proprio dal poeta fiorentino, Cacciari inizia l’esposizione dei suoi studi. Nei canti della Divina Commedia presi in considerazione non è presente la figura di San Francesco, ma è qui che viene elogiato ed esaltato. I brani trattati si svolgono nel cielo del Sole, dove risiedono gli spiriti sapienti che rinnovano e salvano la Chiesa. Questi grandi sapienti si avvicinano a Dante e Beatrice danzando in cerchio formando una corona, sono insigni rappresentanti del pensiero giuridico, filosofico e teologico che raffigurano l’ordine Domenicano. Più avanti una successiva corona di sapienti si avvicinerà a Dante, saranno i rappresentanti dell’ordine Francescano, alla cui testa sta San Bonaventura da Bagnoregio autore della legenda maior, la biografia di San Francesco e i miracoli post mortem, rielaborata dalle precedenti Vitae del Santo scritte da Tommaso da Celano. Le dissertazioni di questi sapienti hanno il carattere d’encomio dei due nuovi ordini religiosi e del sapere che rappresentano. Il primo a parlare dei sapienti della prima corona è il domenicano San Tommaso D’Aquino che celebra la figura di Francesco, mentre per la seconda corona a intervenire è Bonaventura che decanta le doti di Domenico. La disposizione dei loro discorsi non è casuale, ma anzi è ordinata secondo l’importanza attribuita da Dante ai Santi: la mente del poeta fiorentino è tutta per Francesco, che cerca riforme nella Chiesa. Domenico è invece lo splendore intellettuale, la nuova dottrina della Chiesa cattolica che deve studiare e predicare e non convertire forzatamente le genti per mezzo di Guerre Sante. L’elemento della sapienza che deve entrare nella dottrina cattolica appare più evidente con le figure che prendon parola per ultime e concludono le due corone: Sigieri da Brabante, presentato da Tommaso, è un averroista detestato dai Francescani che distingue le verità di ragione e le verità di fede, e Gioacchino da Fiore, presentato da Bonaventura, è giudicato malamente da Tommaso perché reinterpreta in maniera originale le Sacre Scritture ed è il primo a rompere un tabù agostiniano e quindi a propinare una non credenza dogmatica del Vangelo.
Alle luce di queste due figure il valore escatologico della dottrina di Francesco assume un significato ben ampio e la sua magnificenza viene riconosciuta da Dante soprattutto nell’aver donato un nuovo significato alla charitas cristiana: Francesco infatti predica evangelicamente il non giudicare, il non opporsi al male, porgere l’altra guancia: sarebbero questi i comportamenti da seguire per rinnovare la Chiesa. Durante il XIII sec. proprio il giudizio severo sulle Sacre Scritture e sugli eretici e gli infedeli erano state le cause di numerose guerre e dissidi in Europa. Al contrario Francesco ci insegna che non dobbiamo seguire con rigida severità le regole del Cristo, ma che le Sue tracce si devono seguire liberamente. L’altro elemento importante della sua dottrina è la povertà con cui bisogna condurre l’esistenza e che porterà Francesco a morire nudo sulla nuda terra.
Proprio questa ricerca della povertà da parte del Santo stride con la costruzione della Basilica Pontificia di Assisi, fondata col denaro che lo stesso Francesco voleva fosse trattato come sterco. Nell’arredamento e negli affreschi, ogni corrente pauperistica viene liquidata dalla Chiesa che ricerca solo la regalità. Nelle immagini di nudità descritte da Bonaventura nella sua legenda maior, il poverello di Assisi appare vestito con abiti sontuosi: queste rappresentazioni maestose sono in contrasto con la vita e l’esempio di Francesco. Addirittura anche la morte del Santo in un’atmosfera surreale, nudo sulla nuda terra con intorno i suoi frati che cantano, è stata completamente stravolta da Giotto e dai suoi committenti che hanno preferito raffigurare il Santo circondato da frati che lo accudiscono. Secondo Cacciari si consuma un vero e proprio tradimento dell’immagine francescana nei cicli di Assisi. Quella del ciclo degli affreschi di Assisi sarebbe una rappresentazione omogenea alle esigenze della Chiesa del periodo: Francesco è in perfetta armonia con la Chiesa e si inchina ad essa. In Dante, l’esatto opposto.
Secondo la teologia cristiana la povertà sarebbe il necessario svuotamento, kenosis, che serve ad accogliere il verbo del Signore dell’amore del prossimo. Sarebbe una nudità intesa non in senso fisico, ma una nudità più intima, uno spogliarsi dei pensieri rivolti a sé e una rinuncia all’occuparsi di sé, della philopsichia e della philoautia, per rispettare il mandatum novum: solo se non si ha più amore di sé si è totalmente liberi di amare l’altro. San Francesco ci ha insegnato però che questa rinuncia non deve essere accolta come un sacrificio ma bisogna accettarla con volto lieto, hilaris, e che quindi proprio nella sofferenza bisogna essere felici.
Né Dante, né Giotto riescono tuttavia a rappresentare la letizia che abbraccia la morte e solo questa sarebbe l’unica analogia tra le loro due rappresentazioni. Questo perché Francesco è una riserva escatologica rispetto a qualsiasi immagine, e anche perché della morte accolta con letizia non è possibile nessuna rappresentazione umana: questa è una prerogativa del Cristo, è la Christus patiens che ha redento l’umanità. Davanti a una simile natura ogni fantasia umana viene meno. Forse è proprio per questo che ancora molte persone rimangono affascinate dalla figura di Francesco ed è ancora dopo secoli fonte d’ispirazione per chi vuole pensare a cambiare il mondo passando per il cambiamento di sé.